“Beautiful boy” il Film del regista belga Felix Van Groeningen

Beautiful boy è un film drammatico e autobiografico ideato dal regista belga Felix Van Groeningen e tratto dalle autobiografie di David e Nic Sheff, rispettivamente Beautiful Boy: A Father’s Journey Through His Son’s Addiction e Tweak: Growing Up on Methamphetamine.

I protagonisti di questa toccante storia d’amore padre-figlio, che ha il suo cuore nella dipendenza dalla quale il secondo non trova via di scampo, sono due.

Innanzitutto c’è David, interpretato da uno Steve Carell in veste decisamente diversa da quella in cui tutti ce lo immaginiamo, quella dell’eccentrico Michael Scott di The Office. In Beautiful boy è un padre amorevole e disponibile nei confronti dei suoi cari. Vive con suo figlio Nic e la sua seconda moglie, Karen, in un meraviglioso casale immerso nel verde e decorato da mille colori variopinti grazie alle opere artistiche della donna. Dall’amore di David e Karen sono nati due splendidi bambini, Jasper e Daisy, che vogliono moltissimo bene al loro fratellone che, purtroppo, spesso manca da casa.

E qui giungiamo a Nic (Timothée Chalamet), giovane talentuoso e d’indole buona, molto affezionato ai membri della sua famiglia e specialmente al padre. Lui lo supporta sempre, amandolo incondizionatamente, e tenta di capire la motivazione degli strani comportamenti assunti dal figlio di recente. Sta sempre nella sua stanza ad ascoltare musica, a scrivere e abbozzare disegni sul suo blocco. Cosa sta succedendo al giovane?

Nic ha cominciato a fare uso di sostanze stupefacenti, prima semplici spinelli fino ad arrivare alla cocaina, all’eroina e alla sua preferita, la metanfetamina. Cosa lo ha portato a sprofondare nella spirale della droga? Perché un ragazzo così bello, dolce e pieno di qualità ha ceduto ad un simile nocivo richiamo, passando da figlio modello a tossicodipendente aggressivo e malinconico, sotterrato dai sensi di colpa ma incapace di dare una svolta alla sua vita?

Durante il corso del film siamo messi di fronte alla progressione del suo comportamento autodistruttivo, che va di pari passo con il raffreddarsi dei rapporti fra lui e suo padre. Quest’ultimo e la sua compagna cercano in tutti i modi di supportare il giovane. Se il suo ragazzo chiama sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, David è subito pronto per andare a trarlo in salvo. Viaggia ore in macchina per raccattarlo dalla strada sotto la pioggia, spende e spande per mantenerlo in comunità (e lui poi scappa anche), sacrifica la propria vita e quella dei restanti membri della sua famiglia nel disperato tentativo di riportare sulla retta via Nic. In David troviamo un devastante istinto genitoriale che lo conduce sull’orlo del baratro ogni volta che squilla il cellulare, in ogni occasione in cui il figlio sparisce nel nulla senza dare sue notizie per giorni. Lui è disposto a tutto per poter aiutare il suo Nicky a cavare le gambe dalla viscosa melma della dipendenza, della ricerca dello sballo che ormai non è più tale. Anche il ragazzo, infatti, è consapevole della sua situazione allarmante, non essendo però in grado di reagire. Nel progredire degli eventi e nelle espressioni addolorate e angosciate di David, Nic legge nero su bianco il peso della sua colpa. Non solo sta distruggendo se stesso, sta portando a fondo con lui tutta la sua famiglia compresa la madre, dalla quale si stabilirà nella seconda parte del film. Infatti, dopo innumerevoli ricoveri in centri di recupero e promettenti risultati, finisce sistematicamente per ricascarci e spezzare il cuore a tutti, tanto dallo spingersi ad introdursi in casa del padre con un’amica e rubare, sparendo al rientro di questi.

I due protagonisti vivono entrambi un incubo. David vede il suo prezioso figlio appassire e morire lentamente, disperdendo la sua brillantezza e la passione che lo accende fin da piccolo in sostanze sintetiche contro cui non può combattere attivamente. Si sente impotente e vive nella paura che glielo portino via, quel suo bel bambino, che un giorno non possa più essergli d’aiuto per alleviare le sue sofferenze. Questo finchè, dopo l’ennesima scenata di Nic e le promesse tanto agognate di nuovo infrante, David si rende conto che non può fare nulla per il figlio. Nell’associazione dove lui e Karen si recano per riuscire a ricostruirsi una vita, comprende che lui e molti altri genitori di ragazzi con problemi di dipendenza non hanno colpa per il comportamento autodistruttivo dei figli. E, pur se con enorme dolore, il padre comincia a smettere di assecondare le sfuriate di Nic, le sue richieste di denaro, le chiamate disperate dove dice di essere dispiaciuto per quel che ha fatto. Indubbiamente lo è davvero, dispiaciuto, su questo non ci sono dubbi. Ma David realizza che deve recidere il cordone ombelicale. Deve lasciare che Nic prenda le sue decisioni sbagliate e non stargli sempre alle spalle, pronto a prenderlo ogni volta che inciampa in una ricaduta. Se non agisce in questo modo, sa che non potrà mai darsi del tutto a sua moglie e ai suoi due altri bambini, che non potrà mai essere sereno. In un certo senso, anche il suo bisogno di aiutare Nic è una dipendenza; deve sentirsi assolutamente a posto con se stesso e consapevole di avergli concesso tutto quel che poteva, comportamento che forse deriva anche dall’essere stato lui il genitore affidatario di Nic, una volta divorziato con la moglie.

Da parte sua, il giovane è stritolato nei meccanismi della dipendenza, correndo sfrenatamente verso la salute e l’indipendenza e capitombolando ad ogni spasmo che testimonia la necessità assoluta di un’ultima dose. Quando gli viene chiesto perché abbia iniziato con la metanfetamina, lui dichiara innocentemente che, dopo averla assunta, si era sentito bene come non mai. Dunque, è la ricerca di questo “sentirsi bene” che lo porta alla condanna. La sua passione per gli autori romantici e la scrittura vengono congelate nel tempo, arenandosi contro lo scoglio dell’indifferenza verso tutto ciò che non riguardi la droga. O meglio, intorno a questa si focalizza ogni sua attività, compreso il disegno e l’abbozzo di frasi e pagine di diario. Fa accapponare la pelle la scena in cui David, entrato in camera del figlio assente, sfoglia il suo blocco. Dalle pagine infatti emerge il profilo di una mente disturbata e ormai persa nell’oblio, che esprime tramite scarabocchi i suoi pensieri deviati dalle metanfetamine. Nel finale della pellicola Nic, sopraffatto dagli eventi di cui è protagonista, non ha più figure di riferimento. Amareggiato e consapevole di aver deluso chiunque gli volesse davvero bene, finisce in overdose. Non vado avanti per non cadere nello spoiler, ma ci sarebbe ancora moltissimo da dire sulla trama.

Durante la visione del film, gli spettatori possono subito identificarsi nella sofferenza di David, alle prese con il figlio problematico e ingestibile. I più ottusi si domandano: “ma perché Nic odia così tanto la sua famiglia? Perché butta all’aria tutto quello che ha? Potrebbe soltanto smettere di drogarsi e smetterebbe di far star male tutti”. Eh no. Mica funziona così. Non sempre la volontà riesce a farsi valere sull’agire. In determinate occasioni, la forza ci viene a mancare e non raggiungiamo gli obiettivi che ci proponiamo, anche quando la posta in gioco è alta.

Se il dolore del padre è più visibile, non si deve assolutamente sottovalutare quella del figlio. Il suo comportamento non va giustificato, certo, ma non si deve rimanere sordi al patimento e all’angoscia esistenziale del giovane protagonista. Entrambi soffrono, per motivi differenti ma ugualmente annientanti. David fra trasparire il suo stato d’animo mediante le espressioni allarmate, il tono affaticato con il quale parla al telefono con la ex moglie, il comportamento impacciato mentre fa di tutto per capire il suo ragazzo, incomprensibile ai suoi occhi.

Nic, invece, si esibisce in sguardi che trasudano disperazione, sembrano quelli di un animale inchiodato di fronte ai fari di una macchina. Sa quello che sta arrivando, vede le luci avvicinarsi inesorabilmente, ma rimane saldo al suo posto nell’attesa dell’impatto. Il giovane combatte una guerra contro se stesso che ha poca speranza di vincere e lo notiamo anche dalla poca sicurezza che dimostra: parla tramite balbettii, non sostiene volentieri lo sguardo, si nasconde in vestiti larghi. Si scusa, si scusa a profusione con chiunque gli capiti a tiro, segno della consapevolezza dei suoi errori. Il dolore e il senso di colpa lo portano a non voler più vivere, spingendolo al suicidio nel lurido bagno di un pub, non vedendo altre vie d’uscita che una morte che gli pare quasi dolce.

Dunque sia David che Nic sono vittime di debolezza e della dipendenza: il primo del più che naturale desiderio di vedere il figlio star bene, che ha però reso un’ossessione; il secondo assuefatto ad ogni possibile sostanza stupefacente che lo strappi via dalla realtà che odia.

David alla fine ce la fa, riesce a distaccarsi dalla situazione tossica del figlio e si riconquista una piccola, fragile serenità. E soltanto quando il padre prende le distanze, Nic comincia a presentare dei leggeri miglioramenti e possiamo sperare, noi spettatori, che un giorno riesca a poter costruirsi un’esistenza felice e ricca (come farà, da quanto leggiamo nella sua biografia).

Ma torniamo qualche passo indietro, all’agire sconsiderato del giovane protagonista tossicodipendente.

Se il ragazzo ricerca l’evasione nelle droghe, si potrebbe credere che lo faccia perché non è contento della sua vita. Eppure, se si guarda con occhi esterni, la quotidianità di Nic Sheff è semiperfetta: è bello, bravo, intelligente e buono. Ha dei genitori che lo amano, due fratellini adorabili, abita in una casa meravigliosa, immersa nel verde e vicina al mare dove si respira arte. Davanti a lui si aprono le migliori prospettive di futuro. Questo è un esempio evidente di come, se non ci si trova in una certa situazione, non si possa giudicarla o esprimersi riguardo ad essa. A quel che sappiamo noi, guardando il film, Nic non ha nessuna giustificazione per le sue azioni. Niente può discolparlo dall’aver assunto consapevolmente determinate sostanze, di aver mentito ai suoi genitori e dell’aver perdurato nel tenere un comportamento scorretto e deleterio per la propria salute. Tuttavia, non sappiamo quello che gli frulla nel cervello. Non ci è dato venire a conoscenza del perché ha agito così, come non siamo in grado di comprendere la moltitudine di adolescenti come lui che hanno seguito i suoi passi.  

Ogni anno, moltissimi ragazzi della mia età o peggio, più piccoli, assumono abitudini sbagliate e tossiche e rischiano la morte ad ogni siringa nel braccio o pasticca sciolta sulla lingua.

A spingerli a gesti così estremi è forse il loro passato? Il contesto sociale? Le cattive compagnie? La disperazione nel constatare che il nostro mondo sta cadendo a pezzi? Queste sono domande che genitori, opinione pubblica e giovani stessi si pongono da tempo.

Come poter aiutare queste persone? Come riuscire ad essere un buon supporto, un’ancora per chi ha perso la speranza nel futuro? In che modo far capire ai più giovani che la droga non fa figo e che distrugge la tua vita e quella dei tuoi cari? Altre domande senza risposta.

A mio parere, ogni caso a sé è estremamente delicato e singolare. La prima cosa da fare nel relazionarsi con queste persone nell’intento di aiutarli è il presentarsi senza pregiudizi. Spesso ci si relaziona con chi ha delle dipendenze con un certo senso di superiorità, ponendosi confidando delle proprie conoscenze a riguardo. Quello che si legge e si studia, tuttavia, quel che vediamo nei film o sentiamo raccontare per bocca degli altri non è la realtà. E soprattutto, è impossibile fare di tutta l’erba un fascio. Chi soffre di dipendenze (non parlo soltanto di quella dalle droghe ma riferisco anche a alcol, sesso, internet, scommesse e via così) spesso è un individuo fragile e schivo. Certe volte si considerano i propri problemi una vergogna e non se ne parla volentieri, in alcune occasioni ci si sente soffocati da chi ci sta intorno (come dice Nic prima di andarsene di casa accusando il padre della sua situazione). Si ritiene di essere incompresi ed è questo, magari, che fa porre subito sulla difensiva. Chi vorrebbe parlare con qualcuno che ti giudica solo con lo sguardo, preconcetto? Ovviamente nessuno, soprattutto chi è dilaniato internamente e non lucido.

Non sono una psicologa (purtroppo), né una psichiatra o un’assistente sociale. Non posso pronunciarmi a riguardo con certezza e non sono in grado di fornire un metodo efficace per tutti, anche perché come ho detto ognuno è un caso a sé stante. Ma posso affermare per certo questo: se l’interlocutore con il quale chi è affetto di dipendenza si relaziona è prevenuto o poco comprensivo, non sarà minimamente utile, anzi. È necessario mettersi a disposizione dell’altro, ascoltare senza pregiudizi, saper consigliare e supportare.

Si deve tenere presente, però, che il proprio aiuto non verrà sempre accettato. Come dimostra David, essendo il più disponibile possibile non sempre si è capaci di fornire all’individuo in difficoltà quel che cerca. Si deve infatti fare attenzione a non assecondare troppo determinati atteggiamenti e rimanere sempre lucidi, senza farsi coinvolgere troppo dall’emotività della situazione, restando gentili e comprensivi ma non rinunciando all’autorità necessaria per essere un punto di riferimento.

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.