Recensione “La campana di vetro” di Sylvia Plath

In un albergo di New York per sole donne, Esther, diciannovenne di provincia, studentessa brillante, vincitrice di un soggiorno offerto da una rivista di moda, incomincia a sentirsi «come un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi». Intorno a lei, sopra di lei, l’America spietata, borghese e maccartista degli anni Cinquanta. Un mondo alienato, una vera e propria campana di vetro che schiaccia la protagonista sotto il peso della sua protezione, togliendole a poco a poco l’aria. L’alternativa sarà abbandonarsi al fascino soave della morte o lasciarsi invadere la mente dalle onde azzurre dell’elettroshock. Pubblicato nel 1963, un mese prima del suicidio dell’autrice, “La campana di vetro” è l’unico romanzo di Sylvia Plath. Fortemente autobiografico, narra con stile limpido e teso e con agghiacciante semplicità le insipienze, le crudeltà incoscienti, i tabù capaci di stritolare qualunque adolescenza nell’ingranaggio di una normalità che ignora la poesia. Un libro iconico, coraggioso, che tocca temi ineludibili come la parità di genere e la salute mentale, qui accompagnato dalle illustrazioni di Anastasia Stefurak, eleganti nel tratto quanto emotivamente coinvolgenti, ispirate a foto, poster, riviste, moda e stile, design industriale e di interni, oltre che a film americani degli anni Sessanta.

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Titolo: La campana di vetro
Autori: Sylvia Plath
Editore: Mondadori
Genere: Narrativa
Data pubblicazione: 23 Maggio 2023
Voto: 4-/5

Classificazione: 4 su 5.
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Recensione

La campana di vetro di Sylvia Plath è uno di quei romanzi che mi ero ripromessa di leggere da una vita. Finalmente, qualche tempo fa, mi sono fatta coraggio e ho approcciato il libro semiautobiografico di questa autrice dalla sensibilità fragile e preziosa. Credo che tutti gli amanti di carta e inchiostro, più o meno, conoscano la storia di Plath, quindi non spenderò parole a riguardo. Mi concentro piuttosto sul suo scritto, che mi ha messo alla prova ma mi ha anche donato emozioni complesse e spunti di riflessione non da poco. Quando la narrativa si intreccia alla vita personale delle autrici, è sempre così, per me.

La campana di vetro narra dello stage vinto con borsa di studio di Esther (Plath) in una rivista di moda. La prima parte del romanzo è un turbinio di lusso, relazioni sociali e promesse. Sullo sfondo, però, si percepisce un’ansia sottile, un disagio strisciante che si annida nel cuore della protagonista. Quell’ambiente, sfavillante e mondano, non fa per lei, per quanto cerchi di adattarsi alla compagnia di ragazze che Edith vede immancabilmente come possibili rivali. Per lo meno, è questo l’effetto scatenato in me dalle riflessioni lucide e pratiche dell’autrice. Edith è una personaggia che, nella narrativa contemporanea, verrebbe schedata nella rubrica della morale grigia. Alcuni suoi atteggiamenti sono ambigui e reprensibili, ma basta scivolare nei suoi panni per rendersi conto che il suo comportamento è specchio di un onnipresente senso di malessere che l’accompagna nel quotidiano.

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Finito lo stage, Esther torna a casa e il libro cambia tono. Come se avessi imboccato una via traversa dalla principale e mi trovassi di fronte un muro di mattoni, sono andata a sbattere contro il dolore e la malattia. La depressione covata a lungo a New York esplode e lei comincia a non dormire, a non mangiare, a non vivere. Il rapporto con la madre la fiacca, il ricordo del suo fidanzato infedele chiuso in un sanatorio per tubercolosi la ripugna, la compagnia del prossimo diventa un morbo a cui sfuggire. Esther fa sedute di terapia, poi è il turno dell’elettroshock, poi ancora dell’istituto di salute mentale dove trascorre giornate vuote e anonime, galleggiando tra le altre pazienti che vede così diverse da lei, eppure familiari.

Qualunque cosa Esther faccia, però, la campana di vetro che le cala sulla testa e le toglie il respiro la asfissia, non le lascia scampo.

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La campana di vetro è una lettura tosta, che non mi sentirei di consigliare a cuor leggero a chi cerca un libro breve e poco impegnativo per trascorrere un paio d’ore in compagnia di una buona prosa. Tratta tematiche delicate e, sapendo che si tratta di brani di vita di Plath cuciti tra loro, particolarmente impressionanti. Guardare in faccia il dolore della depressione spaventa chi non ne conosce i tratti cangianti. Quindi, se desiderate leggere il romanzo, sappiate che si parla di malattia e sofferenza, di suicidio e perdita di speranza.

Detto questo, c’è da dire che lo stile dell’autrice, soprattutto nella prima parte del libro, è lirico e ricco di descrizioni deliziose. Sia quando parla del mostro nero che ha dentro, sia quando tratteggia gli ambienti lussuosi di New York, sia quando mette in scena l’annichilente pochezza di una città alla ricerca di trasgressione, Plath adopera le parole come pennellate con cui realizzare un meraviglioso affresco dai toni brillanti. La seconda parte del romanzo, il suo percorso nella casa di cura e dentro la malattia, è invece più brusco. Non per questo spiacevole da leggere, sia chiaro, ma ruvido ed esplicito.

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Nel complesso, La campana di vetro è uno scritto che ho apprezzato per il suo forte contenuto e per le modalità con cui Plath ha saputo dipingere la depressione e quel che passa per la testa di una persona spezzata. Verso la conclusione, ammetto di avere avuto un po’ di difficoltà a terminarlo. Se decidete di leggerlo, siate consapevoli che le tematiche di cui tratta non sono per tutti.

Voto: 4-/5

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