In alto, sulla collina, avevo ritrovato quella speranza, quella libertà, e capivo che per viverla bastava pensarla reale. Qui non c’erano le case, le soffitte e le piazze dove il pericolo guatava all’angolo. Qui nessuno mi aspettava a un appuntamento mortale. Qui non c’era che terra e colline e bastava appiattirsi alla terra per vivere ancora.
Cesare Pavese, “La casa in collina”
Cesare Pavese: vivere e scrivere per vincere la solitudine
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“Questo è l’ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell’uomo – di noi e degli altri […] Parlare. Le parole sono il nostro mestiere.“
Nel maggio 1945 Cesare Pavese scriveva così sul primo numero de L’Unità torinese accendendo una luce sulla sua fede nelle parole come strumento in grado di unire gli uomini all’indomani di una guerra che li aveva dilaniati.
A questo presupposto lo scrittore di Santo Stefano Belbo restò fedele per tutta la vita maneggiando le parole come i ferri del proprio mestiere di letterato e di uomo. Tuttavia, se lo scrittore Pavese riuscì a lungo a rifugiarsi nella propria missione intellettuale, l’uomo viveva quello stesso “parlare” con l’angoscia di chi immensamente sente nell’animo i sentimenti e le cose del mondo, ma nell’esprimerle ne soffre.
Questo disagio interiore, la necessità combinata alla difficoltà di comunicare, è stata la scintilla di una ricerca esistenziale che l’ha portato alla composizione dei capolavori: nella sua letteratura c’è il bisogno di radicarsi, di trovare un proprio posto nel reale rompendo la crosta della solitudine che ci separa.