Questo è forse il film che più mi ha fatto pensare. Che cos’è la felicità? La si può raggiungere? Esiste e può durare più di qualche secondo?… C’è una forte malinconia che aleggia un po’ su tutti i miei coetanei, me compreso. Una malinconia che di solito comincia ad avvolgerti sui vent’anni e non saprei assolutamente dire quand’è che finisce. E’ quella malinconia, che alcune volte si trasforma addirittura in depressione, il monito che ti spinge a pensare, a ragionare sul da farsi, a capire dove hai sbagliato e di conseguenza a crescere. Talvolta non è meglio averlo questo “mal de vivre”, che essere tutto sommato felici? Perché se lo fossimo dopotutto, forse saremmo anche vuoti. Meno umani? Disinteressati alla vita direi. Sicuramente meno riflessivi in quanto non avremmo il bisogno di farlo. E se riflettere, pensare, l’avere un obbiettivo e soffrirne per raggiungerlo, non fosse proprio questo il succo, la linfa della vita stessa?

Tarkovskij ci pone questo interrogativo e la sua domanda è spietata. Vuoi ottenere ciò che vuoi sapendo che forse, poi non sarai più quello che sei adesso? Non sei un po’ affezionato al tuo malessere? Non è da questo, che si delinea ciò che sei?
Il regista mette in dubbio l’esistenza, riducendola essenzialmente a nient’altro che una beffa per l’uomo che tutta la vita cerca e si agita e si muove a destra e a manca per la sua felicità che se veramente esiste, ti annulla, ti cambia, ti rende meno interessato. Forse Einstein lo aveva capito dicendo: “amo viaggiare, ma odio arrivare.” “Stalker” è precisamente un percorso verso la felicità, la quale sul finale, viene gentilmente rifiutata.
La trama è questa: Un meteorite è caduto sulla terra e tutto intorno l’esercito ha instaurato un perimetro di sicurezza per impedire ai civili di avvicinarsi. L’area circondata, chiamata la “zona”, è un immenso spazio verde pieno di edifici diroccati e abbandonati. Nella realtà è una vecchia fabbrica, un terreno tossico le quali esalazioni, anni dopo sembra abbiano portato alla morte di alcuni membri del cast e della troupe, e anche di Tarkovskij stesso, facendo ottenere alla pellicola la nomea di “maledetta”. Il film che più rappresenta l’essenza del regista, sia per ciò che mostra, sia per come ci riesce.
Tra gli abitanti del luogo che circonda il perimetro circoscritto dall’esercito, incomincia a girare la voce che il meteorite sia una sorta di lampada del genio in grado di esaudire ciò che è più recondito e profondo dentro di noi: il nostro desiderio più nascosto. Questo genera interesse nelle persone, che si ritrovano a voler realizzare i propri desideri. Perciò iniziano a prendere forma delle figure, gli stalker, persone che si offrono, sotto pagamento, di guidare eventuali interessati a raggiungere il meteorite attraverso la “zona”, prima tentando di eludere le sorveglianze militari e poi muovendosi all’interno di esse stando però alle sue regole particolari. Scopriremo infatti, che la “zona” sembra detenere una propria personalità.
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Il film conta tre protagonisti, lo stalker, e i due “clienti” se vogliamo chiamarli così: un professore (uno scienziato diciamo) e uno scrittore (un umanista). Il primo intenzionato a chiedere al meteorite il raggiungimento del premio nobel, il secondo interessato a chiedere l’ispirazione perduta. Avrete ormai capito che il film non vive di azione o dinamicità, dato che per ciò che rappresenta e ciò di cui parla, non può essere altro che una visione con ispirate scene dialogiche e inquadrature lunghe di una bellezza e potenza visiva impressionante. Dopotutto la “zona” è di per se molto suggestiva e il talento di Tarkovskij riesce ad esaltare ogni dettaglio: ogni ciuffo d’erba, ogni pozzanghera acquistano qui un valore immenso.
Superata la prima parte, girata in una bellissima tonalità seppia nella quale prima i tre si ritrovano e poi sfuggono e si nascondono dai militari per entrare nella “zona”, si arriva alla parte centrale di film. Qui si passa all’uso del colore che però non è mai troppo vivido. Lo Stalker comincia ad accompagnare i due uomini, avvertendoli che non potranno raggiungere immediatamente la “stanza dei desideri” in quanto la “zona” è a tutti gli effetti viva. C’è bisogno ogni volta di capire quale è il percorso giusto da fare, la strada che la lei stessa vuole farti percorrere prima di darti ciò che vuoi; regole dogmatiche da rispettare in quanto, a detta dello Stalker, chi non l’ha fatto e si è allontanato da solo poi non è più tornato. Lo scetticismo razionale del Professore si fa subito presente, quasi comincia a ritenere il tutto una truffa e dopo vari dialoghi in merito prova ad inoltrarsi in solitaria, proseguendo in linea diretta verso la “stanza dei desideri” che in fin dei conti è a soli pochi metri da loro. Ma non appena arriva in prossimità dell’ingresso, il vento si alza e si sente una voce dire: “Fermo, non ti muovere.”
La telecamera si sposta sullo scrittore che chiede allo stalker il perché gli detto di fermarsi. Lo stalker nega di averlo fatto. Il professore, come intimorito, torna indietro. Di chi era quindi la voce? Veniva dall’ingresso come vuole farci credere Tarkovskij o ha veramente parlato lo stalker come ha ipotizzato lo scrittore? Se sì, perché ha negato di averlo fatto? Ma è presto per chiedercelo, il viaggio prosegue e le immagini e i dialoghi fanno tutto il film: si parla della vita, dell’esistenza e della ricerca della felicità, l’eterno scontro tra scienza e filosofia, professore e scrittore che esprimono le loro idee. Non mancano gli interventi dello stalker che, se vogliamo, sembra mantenere un atteggiamento neutrale, quasi disinteressato. La parte centrale del film, si avvale poi di riprese favolose dell’ambiente circostante, come il piano sequenza sulla pozzanghera, e di bellissimi e interessanti dialoghi tra i due che concluderanno il loro viaggio fermandosi sulla soglia della “stanza dei desideri” senza mai entrare. Sono persone diverse da quelle che sono partite: è il viaggio che conta e non l’obbiettivo. Un finale che quindi ci lascia il dubbio che forse, in tutta la storia non c’è mai stato niente di vero, che possa essere solo un’invenzione degli stalker per guadagno oppure che il percorso tortuoso e lunghissimo verso la stanza, non sia altro che un modo per lasciar tempo ai due per riflettere, ora che sono lontani dai limiti, dal caos e della società in cui vivono. Una sorta di cammino spirituale che dà loro la possibilità di ritrovare la propria via. Un ipotesi che infatti si avvalora anche grazie agli ultimi minuti del film. Serve prima dire, che nella scena iniziale dell’opera, vediamo lo Stalker svegliarsi in piena notte e prepararsi, per raggiungere scrittore e professore. In quel frangente ci viene mostrata sua figlia che dorme nel letto. Nel finale scopriamo che alla piccola manca una gamba (colpa probabilmente delle radiazioni ereditate dal padre). La bambina è a sedere su un tavolo e osserva un bicchiere, questo quindi si sposta come per telecinesi e contemporaneamente un treno passa in sottofondo facendo tremare anche tutti gli altri oggetti sullo sfondo. Che sia questa breve scena la chiave di tutto il film? E’ stata tutta un’illusione? Forse la stanza, il meteorite e la telecinesi stessa non sono mai esistiti, siamo noi a decidere di crederci e di conseguenza a dare a tutto il film una diversa idea interpretativa. A me piace vederla così: lo stalker non è nient’altro un uomo che sfrutta la diceria del desiderio, perché ha capito l’importanza di prendersi del tempo, del riflettere, di quanto uno scontro di idee intellettuale, come quelli tra il professore e lo scrittore possano aiutarci a capire di più dalla vita. Come ritornare a galla quando questa ci porta giù… Di sicuro Tarkowsky era un genio, e questo film più che un film, come pochi altri è un esperienza di vita e non è assurdo sentirsi e ritrovarsi li, a camminare in quella zona così onirica e caratteristica insieme al professore e allo scrittore. Perché dopotutto chiunque provi a vedere questa pellicola, se lo fa con l’occhio giusto, simulerà un po lo stesso percorso che fanno i due, ottenendone forse, la loro stessa conclusione.