Intervista all’Autore Gianfranco Spinazzi

Quando ha cominciato a scrivere, quali motivi l’hanno spinta a farlo e come è arrivato ad oggi?

Ho cominciato tardi, avevo più di cinquant’anni. Il motivo è semplice: sono un appassionato lettore di narrativa fin dall’infanzia. Il passo da lettore a scrittore è quasi automatico. Ti dici “Provo a farlo anch’io“. All’inizio senza molta convinzione, poi la scrittura assume un ruolo ben preciso. A questo punto devo confessare un lato prosaico: se non avessero inventato il computer, non so se avrei continuato a scrivere servendomi della semplice ma ben più scomoda macchina da scrivere (…cambiare il nastro, infilare il foglio, usare il cancellino…).


Quali sono i modelli dai quali è stato ispirato e/o lo è tutt’ora?

All’inizio imitavo Gadda. Uno dei più grandi scrittori italiani se non il più grande. La scelta in prospettiva non era casuale: il linguaggio! Scelta obbligata per me, in un certo senso; il non saper inventare storie mi limita al 50%, ma dall’altro 50% rivela ciò che maggiormente mi piace in letteratura: la ricerca e l’elaborazione del linguaggio. Il modo di scrivere, più che la trama stessa.

Mi piacciono autori come Pynchon, De Lillo, Foster Wallace e il loro lato oscuro. Mi piace la vertigine, la sfida, l’astrazione della letteratura, se non capisco una pagina non mi preoccupo, la capirò dopo o non la capirò, non importa.

Sono un lettore onnivoro, posso passare da Calvino a Fenoglio, a Perec, Bernhard, Borges… Scrittori del tutto diversi tra loro.

Tendenzialmente vorrei attenermi a un senso grottesco e a una certa ironia. Dire più che raccontare. Sebbene sia artificiosa la distinzione tra narratore e scrittore, serve comunque convenzionalmente per delineare i tipi di scrittura. Ripeto, il non saper imbastire storie è insieme limite e condizione imprescindibile per girovagare attorno alle forme del linguaggio.


In questo momento che libro sta leggendo?

In questo momento sto finendo un libro molto bello di una scrittrice americana: Annie Proulx, Avviso ai naviganti che le consiglio se non l’ha letto. Altro libro da leggere e da consigliare è Un’Odissea di Daniel Mendelsohn. Recentemente mi sono dedicato alla letteratura argentina, primo fra tutti Ricardo Piglia, uno straordinario scrittore che sa dire e raccontare magnificamente. Da scrittore-lettore parla di letteratura.


Nel suo libro “I Mari del Sud di Calle dei Fabbri” lei dice: “carta e penna assecondarono l’equivoco di credermi scrittore” cos’è per lei uno scrittore e come si definirebbe?

Francamente provo una certa vergogna a definirmi scrittore. Lo scrivere è ingannevole rispetto alla pittura, alla scultura, alla musica… Cerco di spiegarmi: una pennellata, un tocco di scalpello, un accordo musicale, in se stessi non valgono molto oltre la prospettiva di contribuire a formare un tutto pittorico, scultoreo, musicale. Non sono definitivi e autoreferenziali. Diversa è la frase, la sola riga scritta: avendo un immediato senso letterale rischiano di comporre un tutto sproporzionato e illusorio. Quante frasi belle sono inutili nel contesto generale di un testo? Impossibile resistere alla bella frase. Difficile avere il coraggio di cancellarla. La scrittura fruendo di significati letterali, offre un’ingannevole immediatezza. Se l’innamorato scrive una bella lettera d’amore alla fidanzata si crede scrittore, ma non è così.

La narrativa ha un versante popolare da sempre, c’è chi legge Dante e chi legge “Donna Letizia”. Ora per esempio dilagano i romanzi gialli, ma non tutti i “gialli” sono buona letteratura, anzi spesso non sono nemmeno letteratura. Il noir, il thriller, hanno il difetto di non avere difetti: l’assassino, il detective, l’indagine, la falsa pista, la suspense sono ingredienti sempre vincenti e graditi al lettore, difficile deluderlo.

Mi sento coinvolto in questo equivoco della letteratura, e non vorrei alimentarlo in prima persona. Per me la letteratura resta un fatto non proprio elitario ma specialistico, come lo sono la scienza, l’economia, l’astronomia… Discipline di cui la gente parla solo se nè conosce i termini specifici. Bisogna aver letto molto, se non si è letto molto, da Omero (Proust, Musil, Joyce….) in poi, si è solo lettori occasionali, il che non suona certo a disonore. Fermo restando i gusti personali, se supportati da una conoscenza dei meccanismi letterari.

Ma come mai provo disagio a scrivere e continuo a farlo? Non potevo far qualcos’altro? Per quanto sia retorico ormai, vige la frase (bella) pirandelliana “La vita o la si vive o la si scrive”.

Nel momento in cui scrivo mi manca sempre qualcos’altro. A volte mi rendo conto di scrivere perché non saprei fare altro. Diciamo che è una mia disciplinare intransigenza dialettica. Una responsabile consapevolezza. È il tentativo di non isolarmi troppo nella scrittura.


Cosa direbbe oggi ad un giovane che vuole fare lo scrittore?

Gadda diceva a chi voleva fare lo scrittore: “Non andare a lezione da uno scrittore ma da un fabbro ferraio”.Tutti scrivono in maniera molto interiore. Scrivere i tormenti dell’amore, i tormenti dell’anima è molto più facile che descrivere un ambiente, una cucina, la sedia, il tavolo e collegare tutti gli elementi. Agli aspiranti scrittori Samuel Johnson consigliava

“Quando leggete quello che avete scritto, cancellate tutto quello che vi piace molto”.

Vale il discorso già fatto sulla “bella frase” che rimane appiccicata sulla pelle di chi l’ha scritta. Se c’è una cosa che ho imparato è cancellare.

Imparare a cancellare!


Cosa ne pensa del modello consumistico e come si immagina il mondo tra vent’anni?

C’è una rivoluzione epocale di tipo antropologico, che sia bene o male, è in atto un grande cambiamento. Sospendo il giudizio. Forse, nonostante gli aridi mezzi tecnologici, la vita pulsa un pochino di più rispetto al passato, il cellulare è diventato un mezzo antropomorfico. Certo, alcuni strumenti inducono anche alla violenza, però io sarei cauto nel condannare queste cose, sicuramente stiamo vivendo un cambiamento planetario.

Detto questo, cosa verrà tra vent’anni io sinceramente non lo so. Gli esperti, gli analisti vanno a ruba con queste cose, ma se tu li leggi bene scopri che anche critiche e analisi ormai sono stereotipate, quasi banali, retoriche loro malgrado. Credo che in atto ci sia una certa crisi dell’esperto. Demonizzare la tecnologia non me la sento, dipende dall’uso che se ne fa.

Una cosa deleteria invece è l’emulazione. A cui segue l’omologazione. Mi tormenta il fatto che appena qualcuno fa qualcosa di brutto, subito c’è chi lo imita. Vale l’omologazione del gesto, del sangue, dell’apparire, non importa a prezzo di cosa, l’identità e l’affermazione personale sembrano seguire i modelli più truci purché mediatici. La letteratura dovrebbe essere contraria a questo. Se Gide, Dostoevskij, e altri hanno raccontato di delitti orrendi del tutto gratuiti e ingiustificabili, si tratta pur sempre di parole e non gesti. La letteratura non ha mai fatto male a nessuno, ha solo coperto il tutto di cui è fatta la vita, il mondo e l’uomo.

Il male, quello vero, c’è sempre stato, quando fu inventata la polvere da sparo, il suo inventore voleva seppellire la formula per paura dell’uso che ne avrebbero fatto gli uomini. Ogni progresso oltre al bene porta il male.

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