
Ciao amici! Proseguirei con il filone ‘Fluffy’ dopo essermi drammaticamente resa conto del fatto che questa povera orfana coniglia sembrava letteralmente piovuta dal cielo. Come avrete desunto con non poca fatica, mi fu regalata da un misterioso individuo che approfondirò nella storia di oggi. Buona lettura!
Era un caldo pomeriggio di giugno…no, in realtà era caldo fuori: gli ospedali hanno questa strana modalità di creare un micro universo indipendente in cui le stagioni sono completamente sovvertite, attraverso un machiavellico sistema di riscaldamento/raffreddamento che regola le temperature in modo inversamente proporzionale ai gradi esterni. Dunque mentre il resto del mondo godeva quel giorno di un bel sole di 30 gradi, noi poveri sfigalizz…scusate – volevo dire specializzandi- trascorrevamo le ore assiderati in un ombroso studio medici (tenere le tapparelle alzate?giammai). Nel tentativo di terminare velocemente il lavoro che ci separava dal momento in cui finalmente saremmo potuti fuggire a gambe levate dai 10 gradi che troneggiavano nel termostato, ci eravamo infilati tre camici l’uno sull’altro per scaldarci, soffiando continuamente sulle dita intirizzite e paralizzate sulla tastiera. Di tanto intanto lanciavo uno sguardo alla finestra per guardare il sole, soltanto per ricordare al mio cervello che era estate e non inverno, cercando di salvare il mio ritmo circadiano dalla confusione più totale. Ma era tutto inutile, perchè appunto, le tapparelle dovevano essere abbassate per evitare di essere colpiti accidentalmente da qualche molesto raggio solare ad interrompere la concentrazione.
D’un tratto il religioso silenzio fu rotto dalla strutturata responsabile di noi giovani medici in erba:
<< Ragazzi, mi hanno chiamato dal Pronto Soccorso per un ricovero. Ragazzo di 23 anni in insufficienza renale acuta. Ci pensate voi vero?>>.
Naturalmente non era una domanda.
La dottoressa Cappelletti, responsabile del reparto di Nefrologia, era un personaggio singolare. Era una donna minuta, sui sessant’anni circa, con un caschetto la cui lunghezza variava a seconda delle stagioni: corto in inverno, ultra corto in estate. Il volume invece variava a seconda del suo umore: appiattiti quando era apatica, ultra appiattiti quando era spudoratamente indolente. Il gozzo alla tiroide e gli occhi perennemente socchiusi e fissi ad un imprecisato orizzonte le conferivano un’aria evanescente. Tutto di lei sembrava sognante, persino la sua andatura, ancheggiante e silenziosa e con i piedi quasi sollevati da terra. L’unica cosa che di lei non era sognante, purtroppo, era la sua brutta alitosi.
<< Si ma dottoressa insufficienza renale da cosa?>>
<< Ma dovrà dializzare?>>
<< Ha qualche malattia di base? >>
La inondammo di domande tutti insieme. Ma quando la dottoressa Cappelletti decideva che era ora di andare a casa, non ce n’era per nessuno.
<< Poi vedrete, dai che siete bravi! Ciaooo>> ci salutò sorridendo ed arretrando neanche troppo lentamente.
Aveva questa straordinaria capacità di smaterializzarsi nel nulla cosmico proprio quando avevamo più bisogno di lei. Tornò il silenzio, ci guardammo costernati. Non c’era molto da fare, se non attendere il nostro nuovo coinquilino. E anche oggi si tornava a casa domani.
Si trattava di un ragazzo di 23 anni che nella vita faceva il muratore. Nato in Ungheria, da diversi anni si era trasferito con la madre e i fratelli più grandi in Italia. Il suo nome era impronunciabile, e per questo si faceva semplicemente chiamare ‘’Il Muntyan’’, il cui significato restava avvolto da un aura di mistero, così come il motivo per cui i suoi reni avevano deciso di bloccarsi improvvisamente. Non lo capimmo mai, anche se tutto il suo parentado ci offriva spunti parecchio interessanti. Tra lo stuolo di cose assurde che li riguardava, c’era l’abitudine a non bere altri liquidi all’infuori del latte e di una strana birra analcolica importata da chissà dove con la confezione scritta in cirillico. Acqua assolutamente bannata. Venivano spesso a trovarlo i suoi amici, ungheresi come lui, il cui tratto distintivo era l’assoluta impossibilità al sorriso. Le loro bocche sembravano sigillate, in grado di aprirsi solo per mangiare e per bere (latte o birra ovviamente). Probabilmente comunicavano telepaticamente. Ma la regina indiscutibile della stranezza era senza ombra di dubbio sua madre. La complessità del caso cresceva giorno per giorno, tanto che dopo circa una settimana, riuscì a suscitare persino l’interesse della dottoressa Cappelletti:
<< Non so proprio che pesci pigliare >>, la sentivamo ripetere tra se e sè scuotendo il caschetto ultra corto.
La signora Cornelia, nel tentativo nobile di aiutarci a capire cosa fosse mai successo al figlio, decise di fornirci qualsiasi informazione lo riguardasse, confondendoci ulteriormente le idee e mettendo fine alle nostre onorevoli ambizioni. Un giorno infatti, si presentò in ospedale con una serie di taccuini neri di piccole dimensioni, scritti a mano con una calligrafia molto fitta.
<< Ciao dottoressa, io portare miei diari >>, mi disse mollandomi in mano la pila di quaderni.
<< Ah…che bello…>> le sorrisi incerta. << Ma perchè?>>
<< Lì scritto tutto quello che io dato Muntyan >>, rispose coraggiosa.
<< Tutto? In che senso?>>, mi sentivo sempre più smarrita. Una strana e spiacevole sensazione iniziò a galleggiare nell’aria.
Aprì la bocca per rispondere, e mentre mi preparavo inquieta al peggio, il momento fatidico fu interrotto.
<< Aaaahh brava signora me li ha portati! >>, la dottoressa Cappelletti entrò in studio volteggiando felice, il tono di voce più alto di un ottava rispetto al solito.
Mi strappò un taccuino dalla mano ed iniziò famelica a sfogliarlo.
Continuai a spostare gli occhi stupita tra lei a la signora Cornelia, evidentemente compiaciuta.
Dopo aver scorto rapidamente l’intero quadernino, sembrò accorgersi della mia presenza.
<< Ah ciao Grazia. Ho detto alla signora di portarci i suoi diari, in cui ha annotato tutto quello che dava a Muntyan da quando è nato. Vedi se c’è qualcosa di interessante!>>.
Piazzò il quaderno sul resto della pila che avevo in mano, e prendendo sottobraccio la signora, si allontanò chiacchierando.
‘’Ma in che senso tutto quello che gli ha dato?!’’ Continuavo a non capire.
Mi armai di pazienza e iniziai con il primo quaderno. La risposta arrivò già dalla prima pagina, e in realtà avrei voluto proseguire nella mia ignoranza.
In sintesi la signora Cornelia era una grandissima sostenitrice dell’omeopatia e dei rimedi erboristici. Talmente fan che sin dal quinto giorno di vita del povero Muntyan aveva preso ad imbottirlo di fialoidi di sostanze imprecisate, fettine di mela immerse a bagnomaria con i chiodi, mix di erbe lassative quando aveva le coliche, rituali sciamani quando non riusciva ad addormentarsi. Era stata molto precisa: annotava esattamente quale preparato e con quali dosi e per quale motivo lo somministrava. A lato, una sezione apposita per le note, anche quella ossessivamente accurata: oggi Muntyan è adirato, gli dò una fiala di camomilla; oggi Muntyan ha fatto la cacca gialla, gli dò un pò di mela chiodata; oggi il Muntyan mi ha vomitato addosso il pranzo, gli recito il padre nostro tre volte al contrario.
Insomma, di fatto quel quaderno era assolutamente inutile: l’unica cosa che avevo scoperto era che la madre aveva bisogno urgente di uno psichiatra.
La dottoressa Cappelletti tornò poco dopo: << Allora?>>
Le allungai i diari senza parlare, troppo scioccata per dire qualsiasi cosa.
Iniziò a leggere in silenzio, dedicandoci tutta la concentrazione di cui era capace.
<< Oooohh, che mamma meravigliosa >>, commentò portandosi una mano al cuore.
Decisi che avevo bisogno di un pò di aria: con una scusa uscii rapidamente dallo studio, lasciando la dottoressa alla commuovente lettura.
Al di là di questi improbabili retroscena, l’arrivo del Muntyan aveva aumentato la temperatura nel reparto di diversi gradi: era innegabilmente un bel ragazzo, e il primo e unico under 30 che quelle mura avessero mai visto. Le infermiere erano galvanizzate, arrivando persino a discutere tra loro per somministrargli la terapia. Anche la dottoressa Cappelletti ne era chiaramente affascinata, non potendomi spiegare in altro modo la sua improvvisa solerzia. Ovviamente neanche noi specializzande eravamo immuni ma cercavamo di essere più contenute. Dal canto mio, non mi piace quando c’è tanta folla. Mi godevo però l’aumento delle temperature interne ad un livello più sopportabile.
Feci un giro in sala dialisi e il Muntyan era lì, circondato da cinque o sei infermieri che sistemavano gli allarmi della macchina. Mi avvicinai a dare un’occhiata alla situazione. Lui era lì disteso, tremante dalla febbre e dai brividi, e suppongo anche di paura. Pensai a che cosa terribile doveva essere finire improvvisamente in ospedale a causa di qualcosa che neanche i medici riescono a capire, attaccato ad una macchina in una gigantesca sala con altri trenta sventurati dalla medesima sorte. Mi accorsi che mi stava guardando negli occhi. Mi avvicinai pensando che una persona vicina alla sua età l’avrebbe fatto sentire meno solo.
<< Come stai? >>, gli chiesi.
<< Eh…>> sorrise timidamente.
<< Domanda stupida, scusami. Hai tanto freddo?>>
<< Si >>
<< Ascolta adesso dobbiamo attaccarti. Appena gli infermieri hanno finito ti copriamo >>, gli dissi.
Continuava ad essere scosso dai brividi. Mi fece un cenno in segno di assenso.
Restai lì finchè la macchina smise di suonare e lampeggiare impazzita e gli infermieri si furono allontanati.
<< Visto? Tutto finito. Adesso stai qui un paio d’ore e cerca di dormire. Non ti accorgerai di nulla fidati >>. Feci per allontanarmi.
<< Hai Instagram? >>, fu la sua domanda.
Mi fermai un attimo, colta di sorpresa. Continuò a fissarmi in attesa di una risposta. Mi limitai a sorridergli disorientata e uscii dalla sala.
‘’ La dialisi fa brutti scherzi’’ pensai. Era ora di andare a casa.
Nelle settimane successive vidi poco il Muntyan. Non riuscimmo mai a capire cosa gli era capitato: mai come quella volta la medicina non fu una scienza esatta. Ma per fortuna, non aveva più così tanta importanza: lentamente i suoi reni ripresero a funzionare, e presto non ci fu più bisogno di sottoporlo alla dialisi. Tendenzialmente cercavo di evitare la sua stanza, per fortuna non era un mio paziente. Ma i miei tentativi di fuga avevano svegliato i suoi istinti di caccia, e appena gli fu possibile alzarsi, iniziò a passare le giornate girovagando del reparto e orbitando dinanzi allo studio medici. Non posso negare che le sue attenzioni mi facessero piacere: venivo da un bruttissimo periodo e di fatto, mi mettevano di buon umore. Ma ero assolutamente consapevole di non voler oltrepassare la linea. E nemmeno di essere buttata fuori dalla scuola di specializzazione. Qualcosa abbiamo imparato tutte da Izzie Stevens.
Ma avevo sicuramente sottovalutato le sue capacità di cacciatore: alla fine era riuscito a scovarmi su questo benedetto instagram, e aveva iniziato a tempestarmi di messaggi.
Arrivò finalmente il tanto agognato giorno della dimissione: lo istruimmo per il primo delicato periodo, poi prendemmo in disparte la madre proibendole assolutamente di continuare l’utilizzo di qualsiasi sostanza non meglio certificata. Ero la prima a pensare che i farmaci omeopatici erano ininfluenti: se erano tanto inerti per far del bene lo erano anche per far del male. Ma nel dubbio avrebbe potuto tranquillamente farne a meno. E ovviamente, la birra analcolica cirillica sarebbe diventata assolutamente vietata.
Terminati i saluti, le mie colleghe con le quali avevo vuotato il sacco iniziarono ad incoraggiarmi ad uscire con lui.
<< Ragazze ma non si può fare! >> protestavo.
<< Ma cosa! Ormai è dimesso, non ha nemmeno un programma di follow up, non abbiamo più nulla a che fare con lui. Se non ci esci tu ci esco io!>> mi dicevano tutte accalorate.
<< Ci penso >>.
Alla fine mi lasciai convincere. Dopo tutto quello che mi era capitato, forse meritavo qualcosa che mi facesse sentire un pò più leggera. Iniziai a rispondere ai suoi messaggi, e quando mi invitò ad uscire, accettai.
Ci frequentammo per circa un mesetto. Era quasi agosto ormai e la calura della città era tutta per noi, essendosi svuotata per le ferie. Era un periodo particolare per me: risentivo ancora degli strascichi degli anni precedenti, per cui quando non dovevo lavorare tendevo ad esagerare un pochino con il Prosecco. Di conseguenza io e lui passavamo la maggior parte delle serate al suo bar di fiducia.
Era una di quelle sere. Stavamo parlando del suo cane: si chiamava Cipria, perchè era tutta bianca.
<< Anche io voglio un animale! >> esclamai brilla.
<< Non mi sembra una buona idea >> rise. << Sei sempre a lavoro e poi guardati! >>
<< Si ma se io avessi qualcuno di cui prendermi cura, non sarei così sconnessa >>, dissi mentre mi versavo un altro bicchiere.
<< Dici? Mah…e che animale ti piacerebbe avere?Sei troppo pigra per portare a spasso un cane>>
Scoppiai a ridere. << Decisamente. E i gatti miagolano, io voglio un animale che non faccia alcun tipo di rumore >>.
<< Mmm>>. Rimase in silenzio mentre ci pensava un attimo << Un criceto?>>
<< No sei pazzo! E come la mettiamo con la ruota?>>, risposi.
Non ricordo nemmeno come mi venne l’ispirazione.
<< Un coniglio! >> esclamai dopo un minuto.
<< Ma come un coniglio?! Dai ma che animale è…>> disse portandosi la mano alla fronte.
Poi aggiunse << Mah, comunque non sono sicuro che ce la fai a prenderti cura di un animale >>
<< Ti farò vedere! >> urlai in tono di sfida impugnando il bicchiere come fosse una sciabola. Mi versai il resto del vino addosso.
<< Ooookay, ora di andare a casa!>>
Nelle settimane successive, la storia iniziò a scricchiolare. Ero sempre più intrattabile e sconclusionata, le uniche energie che avevo le canalizzavo interamente a lavoro. Più diventavo distante, più il Muntyan, che ahimè si era preso una bella cotta, diventava pretenzioso. Vivevo male le sue richieste, ed iniziarono liti furibonde. Adesso mi rendo conto che poverino, non voleva nient’altro che conoscermi. Ma ero emotivamente irrangiungibile, e soprattutto indisponibile. Non riuscivo a far fronte nemmeno alle mie di richieste, e certamente non ero in grado di capire quelle di qualcuno che volesse entrare in contatto con me.
A fine agosto partii per le vacanze, e approfittai della distanza per chiudere quella storia che non riuscivo più a gestire.
Godei della ritrovata libertà: potevo far schifo quanto volevo, senza che nessuno mi rimproverasse o mi seccasse.
Tornai dopo due settimane, carica ed ottimista, pronta a tornare a lavoro il giorno successivo.
<< Che palle ma possibile che sono sempre in rit…>>
Mi si fermarono le parole in gola, la porta aperta a metà. A terra una gabbia rossa, con dentro qualcosa di bianco e peloso che mi fissava con gli occhi spalancati….Ah ma questa ve l’ho già raccontata 😀
Alla prossima settimana!