“I Demoni del Sepik”: un’intervista con Luciano Caminati

È il viaggio il filo conduttore che unisce i vari piani narrativi de “I Demoni del Sepik”, un romanzo che mescola sapientemente diversi generi e linee temporali.

Nei panni del lettore, ci si ritrova a navigare tra le acque di un fiume, il Sepik, e quelle più complesse della memoria e della psiche umana. Dalla scoperta di un antico diario, che fa da eco a vicende lontane, all’indagine del commissario Alessandri, il passato e il presente si sovrappongono in un continuo gioco di specchi.

In questa intervista, l’autore Luciano Caminati si addentra nelle scelte creative che hanno dato vita a questo intricato puzzle narrativo, parlando di come i personaggi e le loro storie si intreccino, plasmati dalle loro esperienze passate e presenti.

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Nel libro si intrecciano due linee temporali e diversi generi, dal giallo al romanzo storico. Cosa l’ha spinta a scegliere questa struttura narrativa complessa e come ha gestito il passaggio tra le diverse epoche e i vari narratori?

Prediligo la narrazione per salti temporali che non si sviluppa seguendo una cronologia degli eventi, bensì in un continuo sovrapporsi di passato e presente tra analessi e prolessi dove i personaggi vivono nella complessa molteplicità delle esperienze che plasmano il loro intimo essere. Trovo che ognuno di noi sia fatto di quel che è qui e ora, ma costruito sulla propria memoria esistenziale. Ogni nostra azione è la risposta emotiva, istintiva e logica maturata sulla base delle esperienze vissute. Ed è per questo che mi piace mescolare presente e passato in un unico fluire narrativo. Ne “I Demoni del Sepik” ciò è tanto più vero perché la storia nasce dal remoto passato di questo nobile antenato avventuriero che è l’antefatto ma anche il filo conduttore che sottende il viaggio dei protagonisti lungo il fiume Sepik, un centinaio di anni più tardi. Ecco, credo che proprio il fiume qui ben rappresenti il fluire del tempo che intreccia la narrazione dalla fonte della memoria, il diario ritrovato, appunto, fino a sfociare nel rocambolesco epilogo. Nella Parte Prima i vari personaggi entrano in scena ognuno nella rappresentazione di sé costruita sulla memoria del proprio passato, intrecciandosi con l’indagine avviata dal Commissario per far luce sui misteriosi fatti che interessano la Fondazione del Professor Alessandri. La Parte Seconda ci porta direttamente in medias res, lungo il fiume Sepik, ma è la narrazione che ne fa Martin e qui gli eventi sono incalzanti. L’uso del presente e del presente storico ben si adatta allo scopo. Mi ha consentito di mantenere il ritmo, senza rinunciare alle digressioni direi documentaristiche, da reportage, per descrivere la realtà culturale e ambientale delle popolazioni che vivono lungo il fiume. Con la Parte Terza rientriamo nella realtà dell’indagine dove i fatti sono narrati secondo il punto di vista dei vari protagonisti, seguendo l’agire emotivo di ognuno in una soggettiva propria del cinema, ma senza mai discostarsi da quanto è narrato nel famoso diario.

Temevo che l’uso di questa tecnica narrativa potesse ingenerare confusione nel lettore, è sempre stato il mio cruccio. In realtà ho avuto, invece, riscontri assai positivi. Tutti i miei vari lettori non si sono persi, ma hanno apprezzato la suspence, la tensione del ritmo, la descrizione del Sepik.

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Il romanzo esplora il confronto tra culture diverse e scava negli istinti primari dell’essere umano. Quali sono i temi che le stanno più a cuore in questo libro e quali messaggi spera che i lettori colgano?

I Demoni del Sepik ci porta nel magico mondo ancestrale del Sepik River dove sono le forze immanenti alla natura, gli spiriti benigni e maligni, a determinare il vivere dei nativi.

In questo caso anche la vita e le avventure dei protagonisti della piccola spedizione antropologica partita per esplorare quel mondo ma che, in realtà, cela altri fini; il regolamento di conti tra i protagonisti stessi senza esclusione di colpi, in un crescendo di tensione psicologica, pathos e violenza. L’ambiente descritto è un personaggio vivo, non un semplice sfondo, capace di interagire coi protagonisti, determinarne le scelte, influire sulla loro psicologia e i mutamenti dello stato d’animo. Così come il retaggio culturale delle tribù che vivono il fiume.

Ad esempio, se nel romanzo si parla molto del mana e del potere degli oggetti sacri è perché il mana è il simbolo di tutto ciò che non possiamo controllare: la forza della natura, il passato, le nostre stesse paure. Gli oggetti sacri – come il teket trafugato – incarnano il peso delle azioni umane: ogni furto, ogni profanazione lascia una traccia, è il tradimento della sacralità. Sia l’idolo totemico, sia il prezioso dipinto rinascimentale dell’Allegoria di Venere del Bronzino, pur appartenendo a culture così diverse, custodiscono un potere simbolico che viene violato dall’avidità e dalla sete di potere degli uomini. E in entrambi i casi il furto determina una catena di eventi tragici e incontrollabili. Credo che nel profondo il romanzo parli proprio di questo: delle conseguenze invisibili dei nostri gesti, le conseguenze che sottendono l’evidenza ma scavano nel profondo ferite molto spesso insanabili. Pensiamo agli eventi bellici…

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Quali sono state le sfide maggiori durante la scrittura di questo libro? C’è un aspetto in particolare, come la ricerca, la costruzione della trama o la caratterizzazione dei personaggi, che ha trovato più complesso?

La sfida più complessa è stata quella di tenere insieme i vari piani e generi narrativi, senza creare uno spaesamento, accostando al romanzo d’avventura, il thriller investigativo, le atmosfere propriamente noir e dark (come nelle sequenze ambientate nella villa abbandonata), il reportage e, non meno importante, il tema dell’arte. E qui mi sono divertito ad affrontare la sfida di accostare sul piano del simbolismo, l’arte rinascimentale con quella cosiddetta primitiva, tribale. È stato un azzardo vero e proprio e anche la fatica più grande. In sé si potrebbe anche pensare al furto del dipinto del Bronzino, che apre il romanzo, come a un MacGuffin, ma mi è servito per ingenerare riflessioni proprio sul significato dell’arte e della rappresentazione del simbolo. È proprio su questo piano che sono caratterizzati alcuni dei protagonisti. Infatti, è il Commissario, coi suoi occhi, con la sua curiosità a introdurci nell’arcano potere dei simboli, a prendere coscienza dell’influenza dell’arte con il suo carico simbolico. È, invece, Ivan Danieli, profondamente segnato dalle violenze della guerra, a cercare, a modo suo, un futuro diverso nella bellezza dell’Arte ma incapace di intenderla se non come possesso e potere.

Qual è il messaggio del romanzo?

Ogni conquista ha un prezzo. Quando violiamo qualcosa di sacro – un popolo, una cultura, un valore – lasciamo ferite che non si rimarginano. Occorre sempre interrogarsi su cosa significhi ancora oggi violare, sfruttare, tradire mondi che non comprendiamo, mondi diversi, altri e che magari proprio perché altri ci fanno paura. Ma qui è anche il valore intrinseco del viaggio, di ogni viaggio. I Demoni del Sepik è un’avventura, certo, ma anche una riflessione sull’avidità e sulla redenzione.

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Avendo esplorato un genere così ricco di sfumature, ha già in mente il prossimo progetto letterario? Ci può dare qualche anticipazione?

Sto lavorando a un nuovo romanzo che prende spunto da un fatto di cronaca (l’omicidio di una ragazza nel proprio appartamento) ambientandolo durante i tragici fatti del marzo 1977 a Bologna. Qui voglio affrontare il tema di un dramma famigliare, nella sua complessità, la crisi esistenziale di un commissario di polizia violento ma animato da un profondo senso di Giustizia pur confrontandosi con il sistema inquisitorio dell’epoca. Mi interessa analizzare il confronto tra la sfera propriamente privata dei protagonisti con il sentimento rivoluzionario della rivolta studentesca che travalica invece il privato per essere collettivo, nell’illusoria visione di una vita totalmente condivisa.

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