Recensione “Mortacci mia” di Piero Salabè

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Un conturbante viaggio agli inferi, in una Roma surreale, alla ricerca di un padre scomparso. Pintor è un medico che ha lavorato tutta la vita al Policlinico. È un uomo dedito alla ricerca, innamorato della scienza. Un giorno, nella maniera più discreta possibile – abbandonando i suoi occhiali sul comodino – toglie il disturbo scomparendo nel nulla e lasciando i figli senza un perché. Mentre il resto della famiglia lo dà per defunto, Fabio e Lara non credono alla morte del genitore e decidono di cercarlo. Alcuni diari del padre indirizzano i due figli verso l’ospedale, nel frattempo chiuso e abbandonato. E se Pintor fosse proprio in quel Policlinico tanto amato, in qualche ala dimenticata, a portare avanti i suoi esperimenti? Fabio e Lara decidono così di avventurarsi tra laboratori sotterranei e padiglioni decaduti, in una città dei miraggi popolata di voci e visioni, dove i confini fra realtà, ricordi e immaginazione si fanno via via più labili. Piero Salabè firma un romanzo toccante e profondamente umano, popolato da personaggi straordinari. Una storia poetica e di debordante inventiva che è un corpo a corpo serrato con la memoria, con il desiderio di mantenere in vita, a ogni costo e con ogni mezzo, chi non c’è più.

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Titolo: Mortacci mia
Autore: Piero Salabè
Editore: La nave di Teseo
Genere: Narrativa
Data pubblicazione: 11 Aprile 2025
Voto: 4/5

Classificazione: 4 su 5.
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Recensione


Bentornati, lettori! Oggi riprendo a scrivere per parlarvi dell’ultimo romanzo di Piero Salabè, “Mortacci mia”, edito da La Nave di Teseo, con cui inauguro ufficialmente la mia collaborazione.

Un medico, Pintor, scompare nel nulla da una Roma quasi onirica, lasciando solo gli occhiali sul comodino. Mentre la famiglia lo crede morto, i suoi figli, Fabio e Lara, rifiutano di accettarlo. Si aggrappano ai diari del padre, che li guidano verso il vecchio policlinico dove Pintor ha dedicato la sua vita alla scienza e alla ricerca.

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L’ospedale, ora abbandonato e decadente, diventa lo scenario di una ricerca angosciante. I due fratelli si avventurano tra laboratori sotterranei e padiglioni in rovina, inseguendo la flebile speranza che Pintor sia lì, nascosto in qualche reparto dimenticato, ancora intento ai suoi esperimenti.

La loro esplorazione si trasforma in un’odissea sempre più confusa, dove i confini tra ciò che è reale, i ricordi e le pure fantasie si dissolvono. La città stessa sembra un miraggio, popolata da sussurri e apparizioni. Questo romanzo, scritto da Piero Salabè, è un’indagine profondamente toccante sulla memoria e sul disperato desiderio di tenere in vita coloro che si sono persi, a qualsiasi costo. È una storia che si confronta senza sosta con l’assenza e con la potenza inestinguibile dell’affetto.

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È davvero difficile incasellare “Mortacci mia” in un unico genere. Da un lato, la scomparsa del padre suggerirebbe un giallo, ma lo stile evocativo del romanzo lascia sempre al lettore la libertà di interpretare ciò che è stato scritto.

A tratti, può sembrare una storia di vita, narrata attraverso i diari del protagonista. In altri momenti, si presenta come una storia di famiglia, con continui salti temporali e flash di vita vissuta che ne tessono la trama. E poi c’è l’aspetto più surreale, che mescola realtà e immaginazione, rendendo la narrazione fluttuante e diversa a seconda di come il lettore la percepisce in quel preciso istante. È quasi una lettura che svanisce, che resta vacua, proprio come la figura dello scomparso.

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“Mortacci mia” va oltre la semplice ricerca di una persona scomparsa. È un’esplorazione profonda della memoria e un confronto intimo con il lutto, mettendo in luce ciò che rimane dei legami affettivi.

Fabio e Lara si muovono in una Roma quasi eterea, malinconica e surreale, che sembra rispecchiare il loro stato d’animo. La città stessa prende vita, vibrante di echi e voci, dove i confini tra passato e presente, tra ciò che è reale e ciò che è sognato, diventano sempre più indistinti. I protagonisti non cercano solo il padre, ma anche un significato, una verità, e forse persino una forma di pace interiore.

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Il fulcro della trama è la sparizione del padre Pintor e il viaggio dei figli, Fabio e Lara, per ritrovarlo. Questa ricerca non è solo fisica, ma anche interiore, un tentativo di dare un senso all’assenza. Il romanzo affronta il tema del lutto non come una fine, ma come un processo continuo di elaborazione e di “corpo a corpo” con ciò che resta dei legami affettivi. La memoria gioca un ruolo cruciale nel tentativo dei figli di mantenere in vita il ricordo del padre e, in un certo senso, il padre stesso. Il confine tra ciò che è reale, ciò che è ricordato e ciò che è immaginato diventa estremamente labile nel corso del romanzo. La Roma in cui si muovono i protagonisti è descritta come surreale e onirica, riflettendo il loro stato interiore e rendendo la narrazione aperta a molteplici interpretazioni.

La scomparsa del padre innesca nei figli una profonda ricerca di un senso, di una verità, e forse di una redenzione. Il tema del non riuscire a diventare pienamente adulti, del restare in qualche modo “bambini” di fronte all’evento della perdita, è anche presente. Roma non è un semplice sfondo, ma diventa un personaggio a tutti gli effetti, malinconica, sospesa e carica di echi, che riflette e amplifica la condizione emotiva dei personaggi. In definitiva, consiglio questo romanzo a chi cerca una lettura di alto calibro, con una narrazione tutt’altro che semplice, capace di offrire diverse chiavi di lettura e decisamente mai banale. Voto 4/5

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