Piero Salabè: “Sono uno scrittore che, a differenza di altri, legge molto mentre scrive” #Intervista

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Nel panorama letterario contemporaneo, emergono opere che con la loro profondità e originalità sanno catturare l’attenzione del lettore, invitandolo a esplorare dimensioni intime e universali. Tra queste spicca “Mortacci mia”, un romanzo che si addentra nei meandri della memoria e della nostalgia, dipingendo un ritratto vivido di una Roma che resiste al tempo, pur mutando costantemente.

Ho avuto il piacere di intervistare l’autore di questa suggestiva opera, per scoprire i segreti dietro la sua genesi. Dalla scintilla iniziale che ha acceso la fiamma della narrazione, alle sfide e alle gioie del processo creativo, fino alla complessa costruzione dei suoi personaggi e all’influenza di giganti letterari, questa conversazione ci ha permesso di addentrarci nel cuore pulsante di “Mortacci mia”. Preparatevi a un viaggio affascinante attraverso la genesi di un libro che è, al tempo stesso, un omaggio a una città e una profonda riflessione sui legami familiari e sulla natura elusiva della memoria.

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Da dove è partita l’idea iniziale per “Mortacci mia”? C’è stato un elemento scatenante – un’immagine, un’emozione, un’esperienza – che l’ha spinto a dare vita a questa storia? E qual è stata la fase più stimolante o, al contrario, più impegnativa del processo di scrittura?

Vivo da trenta anni all’estero e, nel corso del tempo, ogni volta che tornavo a Roma vedevo un pezzo del mondo della mia infanzia e prima giovinezza scomparire. Anche solo piccole cose, come lo spostamento di una fermata, la chiusura di un vecchio negozio, delle inferriate all’entrata di un parco. La cosa mi rattristava, arrivavo persino a temere che la città non fosse più così sporca e trasandata come una volta. Nel romanzo il narratore spera in cuor suo “di rivedere le strade sudicie come le aveva lasciate”. Qualcosa di intimo e irrazionale si ribellava in me agli inevitabili ammodernamenti: quel passato non doveva finire e stava a me ricostruirlo in una storia che non fosse cronaca, ma incanto, dove tutto restasse fermo, eterno. Facendomi guidare da quella tonalità nostalgica, io passeggiavo nelle strade del quartiere Trieste, che si estende quasi fino alle Mura Aureliane, e un giorno, proprio là, lungo Viale del Policlinico, osservando le facciate ocra dell’edificio di inizio secolo, infiammate dal sole, mi sono detto: è questa luce che voglio raccontare, la luce in cui ogni cosa sarà conservata. L’edificio del Policlinico, costruito all’inizio del secolo, con i suoi eleganti e antiquati padiglioni, mi sembrava la perfetta metafora per quel mondo in via di estinzione. È dunque durante una di quelle passeggiate che è nata l’idea del romanzo.

Fabio e Lara intraprendono una ricerca non solo fisica ma anche interiore. Come si è approcciato alla costruzione di questi due personaggi e del loro legame? Ha usato qualche “trucco” per entrare nella loro psicologia e per rendere credibile il loro percorso di elaborazione del lutto e della perdita?

Fabio e Lara, che nel romanzo sono definiti anche “gemelli siamesi”, rappresentano le due facce di una stessa medaglia che porta il nome di “amore famigliare”. Entrambi sono ancora immersi nel fluido del primo amore, quello della famiglia in cui si nasce, e dove genitori e figli formano un’unità. Un amore protettivo endogamico, che non si vorrebbe mai abbandonare e che può assumere tratti morbosi. Fuori di senno, per esempio, è la loro decisione di “negare” la scomparsa, ossia la morte, del padre, volere continuare a cercarlo a tutti i costi. Il percorso che il fratello e sorella compiono è una metafora della ricerca interiore della figura genitoriale da cui non è possibile affrancarsi. Possono essere letti come un unico personaggio con sfumature femminili e maschili, che a un certo punto si scinde: perché Lara è più leale, non vuole abbandonare la ricerca dell’amore primo, mentre Fabio sente la necessità di emanciparsi. In questa dualità fratello e sorella, che ha tratti incestuosi, ho voluto rappresentare il conflitto di lealtà verso i propri genitori: liberarsi vuol dire tradire? Riguardo la tecnica psicologica: a volte ho assunto un punto di vista regressivo, immedesimandomi nei desideri infantili di Fabio e Lara. È una sfida entrare nella psicologia di un bambino, c’è il rischio dell’artificialità: con un lavoro di memoria ho ricostruito certi sentimenti profondi, per esempio la delusione che Fabio prova quando il padre non asseconda la sua passione calcistica. Ma anche gli adulti hanno sentimenti regressivi, infantili, la nostalgia non è che uno di questi.

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Se dovesse descrivere “Mortacci mia” con una sola immagine, quale sarebbe e perché?

“La verità non è mai in un solo sogno, ma in molti sogni” si dice ne “Le mille e una notte”. E il mio è un libro fatto di tanti sogni. Però se dovessi scegliere un’immagine sarebbe quella di una particolare luce del primo pomeriggio in cui tutte le cose paiono sospese, una luce metafisica in grado di conservare l’essenza del tempo, l’eternità del passato. Allego delle mie fotografie, alcune scattate durante quelle mie passeggiate pomeridiane a “caccia di luce”. Per me la nostalgia si esprime oltre che in una certa tonalità, proprio in una luce particolare. Avevo, in un primo momento, pensato di utilizzare una bellissima immagine di Andrej Tarkovski per la copertina, una casa infuocata da una caldissima luce che la fa apparire come fuori tempo, incantata. Nel romanzo appare spesso il tema della luce che conserva le persone, il loro passaggio nel tempo: “Nell’attesa del suo fantasma dolce e rancoroso riprendo con una cinepresa il pozzo di luce che dopo pranzo inonda il punto fina le del corridoio davanti alla stanza matrimoniale. Toccare il silenzio del pomeriggio come fosse un essere vivo …”

La memoria è un tema portante nel romanzo, sia come strumento per i personaggi che come concetto stesso che guida la narrazione. Come autore, qual è il suo rapporto con la memoria nella scrittura? Crede che la letteratura abbia un ruolo specifico nel preservare o reinterpretare la memoria?

Sulla memoria mi piace citare una frase dello scrittore brasiliano João Guimaraes Rosa, che nel suo romanzo Grande Sertão fa dire al protagonista Riobaldo “Rimemoro minuziosamente il mio passato, per vivere ciò che è mancato”. La letteratura, e questo non solo dai tempi di Proust, è una ricerca del tempo perduto, un’avventura alla scoperta di cose che ancora non si sanno, che si rivelano scrivendo. Ricordare, dunque, non è tanto preservare, ricostruire un dato evento, ma in certo senso viverlo per la prima volta, completare ciò che non è stato vissuto pienamente. La scrittura, anche là dove si professa di essere aderente ai fatti, è sempre mediazione della soggettività e memoria, persino un’autobiografia è raccontata: La memoria è un magma in continuo movimento, ciò che ricordiamo oggi in un modo, lo ricorderemo domani in modo diverso, e dunque scrivere, come dico nel libro, è una sorta di missione impossibile, fermare ciò che cambia continuamente. Fa paura questo pensiero, ma la scrittura vera, quella che non vuole offrire solo immagini rassicuranti, intraprende la sfida di rendere conto di questa incertezza della memoria. Parlo, ovviamente, della memoria personale, non di quella storica che ha un suo certo grado di oggettività. Ma noi qui stiamo parlando di letteratura. “Non riuscirò mai a dire le cose con più precisione”, dice il narratore di “Mortacci mia”, parafrasando una celebre frase di Peter Handke. Perché appunto, la memoria cambia continuamente.

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Considerando il suo stile e i temi che affronta in “Mortacci mia”, quali autori o opere letterarie (anche non contemporanee) hanno influenzato maggiormente la sua scrittura per questo romanzo?

Sono uno scrittore che, a differenza di altri, legge molto mentre scrive. Non ho timore di essere troppo influenzato, al contrario. La prosa di Marguerite Duras, scrittrice di cui in “Mortacci mia” c’è un passaggio intertestuale tratto dal suo “Cesarée”, è un punto di riferimento, mi ha ispirato la sua tecnica del flusso di coscienza poetico che si disinteressa di una trama lineare, il crocevia di voci della memoria come nel film “India Song”. Riguardo al fantastico, è forse invece Adolfo Bioy Casares con il suo romanzo “La invenzione di Morel” ad avermi più influenzato. Lui e Borges – di cui cito anche un dettaglio del racconto “L’Aleph”, la moschea El-Amr al Cairo, dove, secondo una leggenda, si può ascoltare in una delle quattro colonne del cortile il suono assoluto – un secolo fa introdussero il concetto di “fantastico” nella letteratura, in polemica contro il realismo piatto della verosimiglianza. Se dunque nel mio romanzo irrompono sogni e visioni, è per rendere onore a una più profonda percezione della realtà. Strutturalmente riconosco un debito a Roberto Bolaño: la frammentarietà de “I detective selvaggi” mi ha influenzato. Due sue personaggi li ho recuperati, nel nome, dal suo “Romanzetto canaglia”, il Libico e il Libanese. Poi quella sua pagina finale, una finestra disegnata con trattini interrotti, e la domanda “Cosa c’è dietro la finestra”, mi è parsa geniale e mi ha ispirato per la mia ultima pagina.

Dopo aver esplorato temi così intensi e uno stile così peculiare in “Mortacci mia”, sta già pensando a un prossimo progetto? Ci sono nuove direzioni o generi che le piacerebbe esplorare nella sua scrittura?

Se, come dicevo, “Mortacci mia” tratta dell’amore ‘endogamico’, quello che non esce da sé stesso, il prossimo romanzo si propone di rompere la crosta dell’origine, di fuoriuscire da Roma, di incontrare l’altro, donarsi: sarà un romanzo sul viaggiare, uno sperdersi nei popoli e nelle persone, che racconta le mille figurazioni di “eros”, e sarà costruito con una cornice e tante storie autonome, un po’ come 1001 notte. Un oriente che si ricollega anche a Roma, come in questo microracconto, “Per le stesse strade girerai” che sarà parte del romanzo www.leparoleelecose.it . Poi verranno altri libri con temi ben differenti, ma dove tutte le strade porteranno a Roma, una volta ancora.

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