Buongiorno lettori! Oggi ho il piacere di condividere con voi una bellissima intervista con la scrittrice Tina Scopacasa, autrice di ‘La stanza delle attese‘ (Augh! Edizioni), un libro che ho letto con grande piacere e di cui trovate la recensione qui.
Tina Scopacasa è nata a Vibo Valentia. Ha conseguito la laurea in Scienze politiche all’Università degli Studi di Milano, è abilitata all’insegnamento di discipline giuridiche ed economiche. È specializzata come docente di sostegno presso l’Università “Cattolica” di Milano. È insegnante di ruolo dal 2014 e, per scelta e passione, continua a essere docente di sostegno in un istituto di istruzione secondaria di secondo grado di Milano. Prima di fare l’insegnante ha lavorato per lo sviluppo delle PMI, è stata relatrice in diversi convegni e organizzatrice di eventi. Nel 2001 ha pubblicato il saggio Lo sviluppo locale. Uno strumento d’intervento dal basso: il GAL Serre Vibonesi (Qualecultura/Jaca Book). Nel 2014 ha pubblicato il romanzo di formazione Solo se tu vuoi, sua prima opera di fiction. Ha frequentato per due anni una scuola di recitazione. Spesso fa parte della giuria “Teatricoltori”.
Qual è stata la scintilla, l’idea iniziale che l’ha portata a scrivere la storia di Max? C’è un evento o una persona specifica che ha ispirato questo racconto?
Non c’è una persona specifica. Cercavo un’ispirazione e l’idea mi è venuta perché, nel momento in cui avevo deciso di dedicarmi alla scrittura di questo nuovo romanzo, molti ricercatori stavano manifestando per i propri diritti. Come spesso accade negli ultimi tempi, ormai non fanno più notizia gli scontri tra manifestanti o con le forze dell’ordine. Si contano feriti, qualche volta anche gravi e si perde il vero valore della dimostrazione. Allora mi sono detta che per una volta, magari anche solo nella mia fantasia, dai tafferugli potesse venir fuori qualcosa di buono e non solo la conta dei feriti e dei danni.
Quanto tempo ha impiegato a scrivere questo libro e quali sono state le fasi principali del processo, dalla prima bozza alla revisione finale?
Visto che la scrittura è solo una passione, non posso dedicarmi come e quanto vorrei. Dal mio primo romanzo “Solo se tu vuoi” sono passati dieci anni prima che “La stanza delle attese” vedesse la luce. Purtroppo ho dovuto e devo dosare il tempo tra tanti impegni, prima di tutto il mio lavoro, per cui ci ho messo diversi anni a scrivere la prima bozza. Quando penso a una storia ho in mente una struttura grossolana, so da dove voglio partire e dove vorrei arrivare, ma cosa c’è tra questi due momenti viene da sé. Mi lascio guidare dai personaggi, da ciò che mi sta intorno, da fatti o notizie che colpisco la mia attenzione e mi fanno riflettere. Da ciò scaturiscono idee e intrecci che poi elaboro, sintetizzo o sviluppo e diventano parte integrante della storia. Dopo la prima bozza inizia il vero lavoro. Mi capita di montare o smontare pezzi di storia, tagliare o approfondire. Alla fine non sembra più lo stesso testo della bozza iniziale. Lo rileggo molte volte, sono una critica cattiva con me stessa e, finché non mi convince, non metto la parola fine.
Il libro tocca temi molto delicati come il coma, la perdita, la fragilità umana e la riscoperta di sé. C’è stato un motivo particolare per cui ha voluto esplorare proprio queste tematiche?
Come dicevo prima, per la stesura di questo romanzo la lampadina si è accesa con una manifestazione. È innegabile che negli ultimi anni stiamo assistendo a situazioni dolorose che si stanno imponendo nelle nostre vite quasi come fatti normali: omicidi (e in particolare femminicidi), stragi, epidemie, per non parlare oggi delle guerre. Certi giorni ascoltare un notiziario è davvero terribile, il dolore passa attraverso la notizia e ti giunge dritto fino al cuore. Sembra che la percezione del male di vivere, stia dilagando troppo velocemente, in molti quelli che credono che i valori e il rispetto per la vita stiano diventando obsoleti. A tutto questo aggiungiamo anche che, è vero che la vita si sta allungando, ma è vero anche che ci sono mali incurabili e alcune fatalità, che stroncano la vita di parenti e amici in men che non si dica, seminando sofferenza e generando tante domande che cadono nel vuoto. Per tutte queste ragioni ho sentito il bisogno di tirare fuori qualcosa di più dalla sofferenza, di dargli una connotazione nuova, certo non unica, ma possibile, capace di vestire valori che esistono, ma che spesso stanno in secondo piano e sembrano perduti mentre, fortunatamente, non lo sono. A questo punto ho tentato di dare risposte o speranze cercandole dentro o fuori di noi, nelle relazioni umane e, per chi ci crede, anche nella fede.
La famiglia Montevecchio rappresenta un calore e un’unità quasi sconosciuti a Max. Quanto è stato importante creare questo contrasto e cosa simboleggia per il protagonista?
È vero, è subito netta la differenza: famiglia unita e amorevole quella di Cristian Montevecchio e inesistente quella di Max. Ci tengo a chiarire, però, che qui la famiglia non è solo l’istituzione giuridica. I genitori di Max sono divorziati ma non è questa la famiglia che gli è mancata, ma quella fatta di relazioni buone, quelle in cui ciascuno è sé stesso ma è anche con l’altro. Max non aveva questo tipo di famiglia neppure quando i genitori erano insieme, questo legame lo ha provato solo accanto alla sua vicina di casa, anche lei con una sua situazione difficile, anche se le apparenze mostravano altro. Max troverà l’affetto familiare, ma solo nel momento in cui anche lui comprende che “Famiglia” è quel luogo affettivo dove si continua ad aver voglia di vivere, di crescere, di sostenersi, insomma un insieme di relazioni in cui ciascuno, compreso lui, deve fare la propria parte.
L’incontro con Roberto, l’uomo che vive per strada, sembra essere un catalizzatore per Max. Perché ha scelto di inserire questo personaggio e quale ruolo gioca nel percorso di crescita di Max?
Per affrontare un percorso di crescita è necessario che ci sia una conoscenza globale di quello che ci sta intorno. La storia sembra svolgersi in un unico luogo. E in parte è vero, quasi tutto accade nella sala d’attesa. Nella realtà, invece, questo è il crocevia di più parti della società: la famiglia con tutte le sue sfaccettature; la religione, quindi la spiritualità (Don Armando); la scienza, (il chirurgo) e poi siamo in ospedale, con tutte le diverse vicende che accadono alle persone e con la morte sempre in agguato); la vita quotidiana, fatta di routine e del vivere giorno per giorno (la colf Julia); mancava un pezzo, quella parte di società che non è sotto i riflettori, ma vive tra l’indifferenza e l’ignoranza di tutti. Max aveva bisogno di conoscere anche questa parte di realtà per capire meglio sé stesso, cos’era e cosa voleva diventare.
La sala d’attesa è una metafora potente della vita stessa. Quale significato profondo le attribuisce e come la vede risuonare con le esperienze del lettore?
Max e la famiglia di Cristian trascorrono molto tempo nella saletta antistante il reparto della rianimazione. Questo è un reparto sui generis, la vita è attaccata a un filo, in un attimo può cambiare la sorte del paziente e dei parenti che attendono notizie. La vita e la morte hanno un confine sottile, a volte impercettibile per il paziente ma stravolgente per i familiari. Le emozioni che Max impara a vivere lì sono fortissime, vive le sue e quelle altrui. È il luogo in cui tutto può accadere in un attimo. Ma non è questo che succede nella realtà? Certo che La stanza delle attese è una metafora. Ciascuno di noi potrebbe trovarsi davanti a un bivio, in cui tutto cambia e non mi riferisco solo allo stato di salute. A volte un esame, il lavoro, un sì o un no, le scelte che facciamo, una strada piuttosto che un’altra… Mi viene in mente il film Sliding doors: guardando la situazione dall’esterno vediamo come cambia la vita della protagonista a seconda che prenda o perda il treno. Davanti a quelle porte che si aprono o non si aprono, la protagonista è come se fosse nella stanza delle attese. Chissà quante volte è capitato o capita a noi, solo che non lo sappiamo, possiamo solo immaginare altri scenari. Quello che conta, però, quando arriva il cambiamento, è come ci comportiamo in questa fase. Max incomincia a fare i conti con quanto gli accade, e non in modo passivo, lui sceglie di prestare attenzione e interrogarsi, perché è sempre la nostra libertà di scelta che ci permette di accettare, cambiare o rifiutare quanto ci accade. Siamo in grado di cambiare? Di metterci in discussione? Di stravolgere la nostra vita?
Il libro affronta il tema della speranza. In un contesto di tragedia e attesa, come ha voluto bilanciare la drammaticità con il messaggio di speranza che pervade il romanzo?
Come ho già detto prima, le cose accadono e questo noi non possiamo impedirlo, possiamo solo affrontarle. Il come spesso è nelle nostre mani. Gli elementi per reagire a un cambiamento possono essere tanti: la rassegnazione, la rabbia, la preghiera, l’impegno, lo studio, la fede, la vendetta. Ciascuno di noi può decidere come combinare questi elementi, da ciò dipende quello che potrebbe capitarci, le possibilità che potrebbero aprirsi, la Speranza di un cambiamento nuovo che migliori le nostre vite.
Quali sono i suoi prossimi progetti letterari o le tematiche che le piacerebbe esplorare in futuro?
Per il momento mi sto godendo la promozione di questo romanzo. Sono arrivata finalista a un concorso letterario ad Assisi e sono tornata a casa con una Menzione di merito. Mi sono cimentata in un altro concorso con un racconto è mi è stata assegnata una Menzione d’Onore che ritirerò a breve. Penso che continuerò sia con qualche racconto, sia con qualche altro romanzo di formazione. Questa volta mi piacerebbe avere una donna come protagonista, ma ci devo pensare ancora un po’, non ho ben chiare le idee. Quello che so è che mi piace scrivere e mettermi in gioco e il sostegno dei lettori mi spinge sempre a non mollare. È a loro che dico grazie e mi auguro davvero che ciò che scrivo possa essere di aiuto a qualcuno, in qualsiasi forma, anche semplicemente come svago.
Con un sentito ringraziamento a Tina Scopacasa, vi lascio tutti i dettagli su ‘La stanza delle attese‘ e il link Amazon per l’acquisto.
Max è un trentenne milanese che vive di rendita e che cerca nell’adrenalina una soluzione al proprio vuoto esistenziale. Un giorno si infiltra in una manifestazione di ricercatori universitari e si ritrova a soccorrere Cristian, un contestatore ferito nei tumulti. Max chiama l’ambulanza e accompagna il ragazzo in ospedale. Qui conosce i genitori di Cristian – i coniugi Montevecchio – e la moglie Francesca, incinta: di fronte alle loro domande si spaccia per un amico del giovane, nel frattempo caduto in coma, e non se la sente di rivelargli la verità. Malgrado percepisca una certa ostilità da parte di Francesca, Max inizia ad apprezzare il legame con i Montevecchio. Quel calore familiare, a lui quasi sconosciuto, innesca una serie di profonde riflessioni e ricordi: un padre manager, una madre assente, un’amica di famiglia come unico salvagente. Max continua a frequentare l’ospedale, intraprende un percorso di maturazione. Ma nessun cambiamento sincero può avvenire senza turbamenti e momenti di spaesamento. La stanza delle attese diventa un’incubatrice di speranze, affacciata su un futuro di novità tutto da costruire.

