Piero Salabè svela i segreti di “Mortacci mia”

Bentrovati, cari lettori! Oggi vi accompagno nella seconda tappa del blog tour dedicato al suggestivo romanzo “Mortacci mia” di Piero Salabè, frutto della collaborazione tra me, l’agente letterario Matilde Bella e la casa editrice La Nave di Teseo. In questo appuntamento, l’autore ci offrirà ulteriori spunti di riflessione sulla sua opera. Vi ricordo, inoltre, che nel mese di giugno potrete trovare la mia recensione completa proprio qui sul blog, per approfondire ulteriormente questo affascinante libro.

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Il legame tra i fratelli Fabio e Aič, impegnati nella ricerca del padre scomparso, è descritto come una singolare simbiosi. L’autore ricorre a una potente metafora, definendoli “gemelli siamesi con due teste e un solo cuore”, per sottolineare la loro complementarietà. Essi rappresentano l’unica parte della famiglia che nutre ancora la speranza di ritrovare il padre vivo, e la loro indagine si fonda su un’indispensabile reciproca dipendenza.

Sebbene Aič sia la più giovane, emerge come la vera forza trainante della loro ricerca, animata da un impulso irrazionale e passionale, un “amore puro” per il padre, nonostante le critiche del fratello che lo giudica morboso. Fabio, al contrario, è tratteggiato come più egoista, mosso da personali “esperimenti dell’anima”, e la sorella percepisce una fedeltà paterna meno assoluta rispetto alla propria. In alcune sequenze oniriche, si insinua un’ombra di attrazione fraterna da parte di Fabio, evocando il concetto di “Geschwisterliebe”.

L’autore suggerisce che Fabio e Aič potrebbero essere interpretati come le due polarità di un unico individuo, l’animus e l’anima, pur riconoscendo che tale categorizzazione non esaurisce la complessità del loro rapporto, intriso di dolcezza e affetto, ma anche di una latente dinamica di sopraffazione da parte del fratello.

L’autore introduce poi figure marginali che incrociano il cammino dei protagonisti. Abu Ridou, “il Libico”, è un biologo rifugiato, costretto a un impiego precario nonostante la sua elevata formazione. Il suo nome, letto in spagnolo, evoca la “noia”, un sentimento esistenziale che riflette la frustrazione di chi, giunto in Italia con la speranza di una vita migliore, si ritrova relegato ai margini. Questa figura incarna la condizione di molti rifugiati, spesso vittime di pregiudizi, e con il suo radicale pessimismo funge da contrappunto alla ricerca di senso umano celebrata nel romanzo, ricordando la potenziale inconsistenza di tale ricerca.

Infine, “il Libanese”, un tecnico del suono di origine ebraico-ungherese, aiuta Fabio a decifrare i rumori provenienti dall’interno del Policlinico. Soprannominato così per una giovanile aspirazione verso un luogo mitico in Libano, egli è un mistico convinto dell’esistenza di una frequenza universale in cui tutti i suoni convergono, preservando ogni istante dell’esistenza. Attraverso questi personaggi, l’autore conferisce dignità a figure ai margini e arricchisce la narrazione con diverse prospettive sulla realtà e sul significato della vita.

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