Il panorama del thriller italiano contemporaneo si arricchisce di una voce capace di mescolare con sapienza la tensione del genere horror alla profondità dell’indagine psicologica. Antonio Terzo, autore attento alle sfumature dell’animo umano e profondo conoscitore degli archetipi della paura, ci conduce tra le nebbie di Hallowbridge, una cittadina dove il silenzio non è mai assenza di rumore, ma custode di segreti inconfessabili. Cresciuto con il mito dei grandi maestri del brivido, Terzo costruisce architetture narrative dove il quotidiano — una chat di WhatsApp, un vecchio borgo, un gruppo di amici — diventa il portale verso un abisso di traumi mai risolti. In questa intervista, l’autore ci svela la genesi del suo universo narrativo e la filosofia che si cela dietro le ombre del suo ultimo successo.
Nel suo libro, la cittadina non è un semplice sfondo, ma sembra una presenza viva e pulsante. Quanto ha attinto dal borgo in cui è cresciuto per delineare questa ambientazione e perché, secondo Lei, il bosco continua a esercitare un fascino così inquietante nell’immaginario collettivo?
Hallowbridge non nasce direttamente dai luoghi in cui sono cresciuto, ma piuttosto da quelli che ho conosciuto indirettamente attraverso documentari, film, social o durante i miei viaggi. È una cittadina immaginaria americana, ma la sua anima affonda le radici nei piccoli borghi italiani: luoghi spesso vicini ai monti o ai boschi, dove addentrarsi era ed é percepito come qualcosa di potenzialmente pericoloso.
Questi paesi hanno una caratteristica che mi ha sempre colpito: in superficie tutto sembra immobile, quasi cristallizzato, ma sotto si muove una fitta rete di sguardi, silenzi e memorie condivise. Ho attinto proprio a quell’atmosfera sospesa, dove il passato non passa mai davvero e continua a influenzare il presente.
Il bosco, invece, è un archetipo. È il luogo in cui l’uomo perde il controllo e torna vulnerabile. Non ha regole né confini chiari, non risponde alla logica urbana. Nell’immaginario collettivo rappresenta ciò che sfugge, ciò che osserva senza essere visto. Per questo inquieta: perché ci ricorda che non tutto può essere illuminato o spiegato.
L’incipit ruota attorno a un messaggio su una vecchia chat di WhatsApp. È un contrasto interessante: la tecnologia moderna che risveglia un mistero vecchio di vent’anni. Come è nata l’idea di utilizzare questo espediente narrativo?
L’idea nasce da una riflessione molto semplice: oggi archiviamo il nostro passato dentro dispositivi che crediamo silenziosi, ma che in realtà conservano tutto. Una chat dimenticata è come una stanza chiusa a chiave: finché non la riapri, sembra innocua.
Mi affascinava l’idea che un mistero sepolto non venisse riattivato da un indizio fisico o da un evento eccezionale, ma da qualcosa di quotidiano, quasi banale. In questo senso la tecnologia non è il male né la causa: è solo il mezzo attraverso cui il passato trova un nuovo modo di bussare.
La scomparsa di Lisa ha segnato profondamente il gruppo di amici. Quale aspetto della psicologia di Mark è stato più difficile indagare per mostrare come un dolore mai risolto possa distorcere la percezione del presente?
La parte più complessa è stata raccontare la normalizzazione del dolore. Mark non vive nel ricordo costante di Lisa, ma in un equilibrio apparente costruito attorno alla rimozione. Il suo vero dramma è l’illusione di aver superato ciò che, in realtà, non ha mai voluto affrontare.
Mostrare come un trauma irrisolto non si manifesti sempre in modo evidente, ma condizioni le scelte quotidiane, i rapporti, persino il modo di interpretare la realtà, è stata la sfida più delicata. Il dolore che non si affronta non urla: distorce lentamente la propria vita.
Lei ha spesso dichiarato di ispirarsi alle leggende popolari. C’è un racconto specifico della tradizione che ha influenzato la genesi de I Misteri di Hallowbridge?
Più che una leggenda specifica, mi hanno influenzato le strutture delle leggende popolari: quelle antiche, tramandate oralmente, prive di un’unica verità, che cambiano a seconda di chi le racconta. Narrazioni in cui il confine tra colpa, punizione e destino resta volutamente ambiguo.
Sono storie nate più per spaventare che per rassicurare, e proprio per questo estremamente potenti. Le leggende di Hallowbridge nascono da questa ambiguità: non volevo una mitologia esistente, ma la sensazione di qualcosa di antico che sopravvive sotto la modernità, come se il paese, e ciò che vi si è annidato, fosse costruito sopra qualcosa che non è mai stato davvero sepolto.
Per immergersi nelle atmosfere cupe dei suoi romanzi, ha bisogno di particolari condizioni ambientali, come il silenzio assoluto o una specifica colonna sonora?
Non cerco il silenzio assoluto, ma una sorta di isolamento mentale. Ho bisogno di visualizzare una scena, viverla ed esserne partecipe.
Più che l’ambiente esterno, conta quello emotivo. Se una scena funziona davvero, riesco a scriverla anche nel caos. Quando non funziona, nessun silenzio può salvarla.
Quali sono gli autori che hanno contribuito maggiormente alla sua formazione e che considera dei veri punti di riferimento per il genere thriller e horror?
Sono cresciuto leggendo autori capaci di unire tensione e profondità psicologica. Stephen King per la capacità di rendere l’orrore qualcosa di quotidiano e umano. Shirley Jackson per l’ambiguità psicologica e il non detto. Thomas Harris per l’eleganza del male. Autori come Glenn Cooper, Arthur Conan Doyle e Agatha Christie mi hanno insegnato il valore della struttura e del mistero.
Tra gli italiani, Giorgio Faletti e Donato Carrisi hanno avuto un’influenza importante nel dimostrare che il thriller può essere anche introspezione e atmosfera, non solo meccanismo narrativo. Credo molto anche nell’influenza dell’epica contemporanea: film, serie TV e videogiochi. Ogni storia, se raccontata bene, lascia un segno e contribuisce a formare il modo in cui raccontiamo le nostre.
Dopo il riscontro positivo di quest’ultima fatica, a cosa sta lavorando attualmente? Può darci qualche anticipazione sulla sua prossima direzione creativa?
Sto lavorando all’espansione dell’universo narrativo di Hallowbridge, concepito come una trilogia. I protagonisti stanno compiendo un viaggio che li porterà ad affrontare ciò da cui, per troppi anni, sono fuggiti.
Parallelamente, sto sviluppando diversi progetti. Uno, in fase di conclusione, spinge ancora più in là la componente psicologica e simbolica del thriller: qui il mistero non riguarda solo ciò che è accaduto, ma il modo in cui la mente umana reagisce, si difende e si trasforma. Sarà una direzione più oscura, ma anche più intima.
Ringraziamo Antonio Terzo per averci concesso questo sguardo privilegiato dietro le quinte della sua scrittura. La sua capacità di trasformare la nostalgia in inquietudine e il dolore in narrazione conferma come il thriller, nelle mani giuste, possa essere uno strumento d’indagine potentissimo sulla realtà che ci circonda. Non ci resta che attendere i prossimi capitoli della trilogia, pronti a tornare tra i boschi e i segreti di Hallowbridge, consapevoli che, come ci ha insegnato l’autore, il passato trova sempre un modo per tornare a bussare alla nostra porta.
