Domenico Cacopardo: “La mia esperienza è un patrimonio di cui mi avvalgo nel definire le situazioni” #Intervista

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Domenico Cacopardo, nato nel 1936, è vissuto in giro per l’Italia al seguito di suo padre, funzionario pubblico. Consigliere di Stato in pensione, ha collaborato e collabora con numerose testate giornalistiche nazionali e locali. Ha insegnato nelle università di Torino e Roma-Luiss. Ha scritto venti romanzi, tra i quali la nota e fortunata serie di gialli che ha per protagonista il magistrato Agrò, edita da Marsilio. Ha pubblicato anche con Mondadori, Baldini&Castoldi, Diabasis e altri.

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Come nasce la tua passione per la scrittura?

Nasce con la lettura, Il primo libro regalatomi subito dopo l’arrivo degli americani, nell’ottobre del 1943, fu comprato da mio padre nella Libreria Principato di Messina ed era I figli del capitano Grant di Jules Verne. Per la cronaca ricordo che Principato (Messina-Firenze) era una casa editrice di importanza nazionale, poi scomparsa. Anni dopo, nel 1952 arrivarono letture più impegnative che mi aprirono il capo a orizzonti illimitati. Mi riferisco per primo a Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini (di cui mia figlia conserva la copia della prima edizione illustrata) e subito dopo da L’età della ragione con cui scoprii Sartre e l’esistenzialismo. Una modalità di pensare e di vivere (e poi di scrivere) alla quale credo di essermi sempre conformato.

Come descrivi il tuo processo creativo? Come ti approcci alla scrittura di un nuovo libro?

In modo casuale: può essere una lettura, un film, la cronaca a richiamare la mia attenzione e a farmi recuperare ricordi personali, storici o di cronaca. Non è un processo fisso. Attualmente lavoro a una storia che avevo abbozzato anni fa e che era rimasta allo stato di bozza. L’ho rivista di recente e ho pensato che meritasse di essere recuperata e trasformata in romanzo. Del resto del periodo fervido del mio liceo, conservo un centinaio di racconti, più o meno lunghi, e diverse ipotesi di romanzo. Sono là, cartacei come un giacimento personale al quale di tanto in tanto attingo. 

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Quanto tempo dedichi alla scrittura? Hai una routine specifica?

Non ho una routine precisa, di tipo impiegatizio. Normalmente, se inizio a scrivere una storia l’ho prima maturata in me. Così inizio e vado avanti sino alla fine della prima stesura in modo totalizzante. Succede che finisca alle 2 o alle 3 di notte o che, svegliatomi, colgo un pensiero uno stato d’animo un fatto che intendo fissare subito sulla carta. Così mi alzo e vado al computer. 

La tua esperienza da magistrato ha influenzato la tua scrittura? Se sì, in che modo?

Si ma in modo non totalizzante. Nel senso che la mia esperienza è un patrimonio di cui mi avvalgo nel definire le situazioni. Peraltro, per convinzione deontologia personale, non ho mai usato uno dei casi di cui mi sono occupato come consigliere di stato (tutti cartacei e spesso espressione narrabile della patologia dei rapporti umani e dei rapporti tra cittadino e stato), a differenza di tanti colleghi che, invece (penso a Giancarlo De Cataldo che ha trasformato una sua inchiesta in un’opera narrativa), hanno attinto a piene mani alla loro personale esperienza professionale.  

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Nei tuoi romanzi, il tema della giustizia sociale è ricorrente. Come mai questo tema ti sta particolarmente a cuore?

Ho iniziato a ‘sentire’ la politica a 15 anni, frequentando la Federazione del Pci di Viterbo. Con altri avevamo messo in piedi il mensile Tuscia Goliardica, che ci condusse in camera di sicurezza (per 1 notte) il giorno in cui attaccammo l’onorevole democristiano andreottiano Attilio Iozzelli. Poi, nel 1956 fui profondamente colpito dai fatti di Ungheria che mi spinsero a uscire dal partito. Aderii poi al Psi che nel Congresso di Venezia 6-10 febbraio 1957 avviò la politica di autonomia dal Pci. Sono stato iscritto al Pds e ai Ds, non al Pd. Credevo a una ipotesi riformista inceppatasi per l’alleanza con i resti della Democrazia Cristiana. Oggi ho 87 anni (88 il prossimo 25 aprile) e sono un libero pensatore che crede nei valori del liberalesimo e della democrazia. 

I tuoi personaggi sono spesso complessi e contraddittori. Da dove trai ispirazione per crearli?

Dalla vita. Solo dalla vita. Anni fa narrai (Io, Agrò e il generale, Marsilio) di un mio amico la cui figlia era scomparsa (rapimento o fuga). Dopo qualche sera (al massimo 3) in piena tregenda aveva fatto l’amore con la sua compagna. Un critico, peraltro amico, osservò che non era credibile una successione di eventi del genere. Si sbagliava: quel fatto era vero e della vita reale. Il mio amico mi raccontò tutto una sera, chiedendomi se pensassi che fosse pazzo. Gli risposi di no, giacché è sacramentato in ricerche scientifiche di psicologia (ho un 30 e lode nell’esame di psicologia sostenuto nell’Università Federico II di Napoli, quando dopo giurisprudenza, frequentavo storia e filosofia) che un trauma viene spesso rimosso e superato con un rapporto sessuale liberatorio. 

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Qual è il tuo romanzo a cui sei più affezionato? E perché?

Maddalena, la storia immaginaria, ma possibile, del passaggio di Caravaggio da Messina. 

C’è un personaggio che ti è particolarmente caro?

Di certo Virginia protagonista di una storia siciliana, donna invincibile ancorché analfabeta. Una matriarca con un amore forte e un amore di convenienza. 

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Come nasce “Pas de Sicile”?

Nasce da una vicenda vera, casualmente scoperta. Era però da tempo che meditavo di uscire dalla Sicilia, onorando la mia metà emiliana (mia madre era la 18^ figlia di una coppia piacentina di amanti dell’opera lirica che cantavano tutti insieme. Una famiglia con un prete monsignore in Vaticano con un passato di insegnamento di teologia nell’Università di Friburgo e un fratello capo partigiano, comunista secchiano.

Come hai scelto le tematiche presenti nel libro?

Non ho “scelto” le tematiche. Sono venute loro nel momento in cui ho iniziato a sviluppare gli spunti narrativi di cui ero in possesso. In definitiva la tematica è una sola: il razzismo e la sua manifestazione italiana delle leggi del 1938, 

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Il protagonista, Domenico Palardo è un magistrato in pensione. Quanto di te e della tua quotidianità sono presenti nel romanzo?


Avevo bisogno di un alter ego cui attribuire la narrazione che era ed è mia.

Quali sono i tuoi scrittori preferiti? E quali libri hanno lasciato il segno?

Oltre ai due citati più sopra, sarò deludente citando Giacomo Leopardi, Torquato Tasso per la Gerusalemme, un poema ricco di spunti di attualità, e venendo in qua Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo e Philiph Roth. Debbo una particolare emozione e Uomini e no di Elio Vittorini. 

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Come vedi il futuro della letteratura italiana?

Non lo vedo non lo immagino. Constato che c’è un grande fervore e che da questo non può non uscire qualcosa di importante. 

Quali sono i tuoi progetti futuri? Stai lavorando a un nuovo romanzo?

Ho terminato la prima stesura di un nuovo romanzo siculo-emiliano. Ora viene il difficile: debbo renderlo pubblicabile. L’editore ne avrebbe fissato l’uscita a novembre 2024. Intendo, quindi, vivere e vivere “in sensi”.

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