“Buen Camino”: Se la risata di Checco Zalone incontra la polvere di Santiago

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Cosa succede quando l’uomo più viziato d’Italia, un ereditiero che non ha mai sollevato un dito in vita sua, si ritrova catapultato tra i sentieri polverosi del Cammino di Santiago? “Buen Camino”, l’ultimo film di Checco Zalone, parte da questa premessa esplosiva per regalarci una commedia che è tanto feroce quanto commovente.

Il protagonista è il ritratto dell’opulenza senza merito: un uomo che vive della rendita del padre, totalmente scollegato dalla realtà e, soprattutto, da sua figlia. Quando la ragazza sparisce nel nulla, le tracce portano ai piedi dei Pirenei, all’inizio del leggendario Cammino di Santiago.

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L’inseguimento di Checco inizia con lo stile che lo contraddistingue: a bordo di una fiammante Ferrari rossa, convinto di poter risolvere tutto con i soldi e la velocità. Ma il destino (e un gruppo di tori decisamente poco amichevoli che distruggono il bolide) ha piani diversi. Rimasto appiedato, Checco è costretto a continuare il viaggio nel modo più umiliante per lui: camminando.

Il film usa l’ironia dissacrante di Zalone per toccare corde profonde, evitando accuratamente ogni forma di moralismo: La distruzione della Ferrari non è solo un momento comico esilarante, ma il simbolo della perdita delle certezze materiali del protagonista. Senza il suo status, Checco è solo un uomo tra tanti.

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Il vero motore del film è il rapporto con la figlia. Il Cammino diventa l’unico spazio possibile per un dialogo che non è mai avvenuto, obbligando il protagonista a guardare oltre il proprio egoismo. Al fianco di Checco compare una figura femminile chiave. Non è un mentore severo, ma una compagna di viaggio che lo guida senza mai giudicare la sua mediocrità o il suo passato, aiutandolo a tessere di nuovo i fili del rapporto con la figlia.

In “Buen Camino”, il celebre pellegrinaggio spagnolo non viene trattato con il solito misticismo da cartolina. È descritto come un luogo dove le distanze sociali si annullano: Per un uomo che non ha mai lavorato, ogni chilometro è una tortura che Zalone trasforma in gag fisiche memorabili. Dallo scontro con i tori alle difficoltà degli ostelli, il film mostra come il Cammino sia in grado di piegare anche la personalità più arrogante.

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Lentamente, il rosso della Ferrari viene sostituito dal verde dei paesaggi galiziani, segnando il passaggio dal rumore del motore al silenzio della riflessione. Perché riesce a farci ridere di un personaggio inizialmente detestabile, portandoci a fare il tifo per lui. Non c’è una trasformazione spirituale improvvisa e stucchevole; Checco rimane se stesso, ma impara finalmente a guardare chi gli sta accanto. È un film che ci ricorda che, per ritrovare qualcuno che abbiamo perso, a volte dobbiamo prima perdere tutto ciò che pensiamo di possedere.

In definitiva, “Buen Camino” ci lascia con una consapevolezza agrodolce: a volte serve che il destino ci distrugga la “Ferrari”, qualunque essa sia nella nostra vita, per costringerci a rallentare e guardare negli occhi chi amiamo. Zalone ci regala un protagonista che impara a camminare solo quando non ha più una marcia da ingranare, dimostrando che il vero viaggio non è arrivare a Santiago, ma saper restare al fianco di qualcuno senza la pretesa di avere tutte le risposte.

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Ma ora la domanda sorge spontanea: se foste costretti a scendere dalla vostra auto e a percorrere 800 chilometri a piedi per recuperare un rapporto perduto, cosa sarebbe più difficile da lasciare per strada: le vostre comodità materiali o l’orgoglio di aver sempre vissuto a modo vostro?

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