Ben tornati a tutti lettori, ovvi vi porto l’intervista all’autrice Paola Baia, di cui ho avuto il piacere di leggere ad aprile scorso “L’amico ammucciato” edito Scatole Parlanti.

Paola Baia è nata a Catania nel 1976. Dipendente di un istituto di credito, attualmente vive a Caltanissetta e lavora nel Centro Sicilia. Nel 2019 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio La mosca di casa Bellassai (Edizioni Lussografica) facente parte della collana L’immagine rovesciata – Prove di narrativa siciliana. Nel 2021 ha vinto il concorso letterario “Etnabook – Cultura sotto il Vulcano” nella sezione dedicata ai romanzi brevi.
Quando hai capito che volevi diventare una scrittrice?
“Scrittrice”, almeno per me, è una parola immensa; pur sapendo che è lecito sognare in grande, il mio desiderio è stato sempre innanzitutto migliorare, per meritare il tempo e l’attenzione dei miei lettori. Rimanendo con i piedi per terra, dunque, posso certamente risponderti che il mio amore per la scrittura è cresciuto dapprima pian piano, fin dall’infanzia, per poi sbocciare definitivamente qualche anno fa, quando la maturità mi ha fatto intuire come una parte delle pagine che ho sempre scritto per me stessa potessero avere significato anche per altri; che si trattava, insomma, di un’esperienza da poter condividere.
Cosa ti ispira a scrivere?
Per quanto mi riguarda, scrivere è il punto d’arrivo di un processo abbastanza lungo, a volte anche inconsapevole, che nasce dall’osservazione, dai ricordi, dalle riflessioni personali e dalle emozioni; esperienze che costantemente attraversano ognuno di noi e che solo apparentemente sembrano poi dileguarsi per sempre. In verità, il più delle volte semplicemente spariscono dal nostro sguardo per “far festa” altrove e tornano quando meno ce lo aspettiamo, anche a distanza di anni. Anzi, senza quella distanza, difficilmente chi scrive può dirsi “scrittore e/o scrittrice”…
Qual è il tuo processo di scrittura e come ti organizzi per scrivere?
Il mio processo di scrittura, almeno per quello che ho sperimentato finora, di solito si svolge a fasi alterne, comprese alcune pause. In genere, è durante queste pause che nascono le cose migliori… sembra un controsenso ma è proprio così. Abbozzata la storia, nel silenzio di questi momenti di “vuoto”, i personaggi stessi si fanno avanti, invadono gli spazi, pretendono attenzioni, trasformano la mia esperienza quotidiana in qualcosa da poter trasportare nel loro fantastico mondo di carta! Una volta individuata una traccia, insomma, mi faccio guidare, immaginando che “farsi trasportare” possa poi diventare anche la sensazione di chi mi leggerà. Fatto questo, naturalmente, interviene poi il “mestiere”: si sistema, si taglia, si fanno le prime correzioni sulle bozze del libro e si cerca di capire a chi lo si può affidare prima di metterlo, se del caso, nelle mani del lettore.
Come nasce “L’amico ammucciato”?
«L’amico ammucciato» è il mio secondo romanzo e ha occupato un tempo di scrittura di circa un paio d’anni. In quel periodo (2017 – 2019) l’intera umanità si preparava a festeggiare il cinquantenario dell’allunaggio del 1969 e l’avvicinarsi di quella data aveva scatenato in me tante riflessioni su ciò che può definirsi più in generale “conquista o progresso”, dato anche il lento passo con cui si prosegue su altri fronti, magari meno eclatanti, come quello dell’inclusività.
Quale scena hai amato maggiormente scrivere?
Ho amato in modo particolare le scene dell’infanzia dei protagonisti, nelle quali si esprime la genuinità dei personaggi e si delineano alcuni sentimenti e valori che poi si esprimeranno nel corso della storia.
Quale invece ha richiesto più energie?
Nel romanzo ci sono dei passaggi in cui ho dovuto dar voce anche ad aspetti meno nobili dell’animo umano; anche se talvolta mi sono divertita nel farlo, in alcuni frangenti ho dovuto fare un po’ a botte con la tentazione di tenerli fuori dalle pagine.
Autori e/o generi preferiti?
Mi piacciono soprattutto i classici, anche quelli letti ai tempi della scuola, che spesso rileggo o consulto. Ho trovato illuminanti fin dall’adolescenza i romanzi di Hermann Hesse, e probabilmente da lì nasce la mia passione per un genere che adoro particolarmente, quello dei romanzi di formazione. Comunque sia, non mi precludo nessun ambito, compresi i libri di autori emergenti; ho solo una regola “aurea”: intercalare la narrativa con la saggistica, magari leggendo in contemporanea un romanzo e una biografia.
Progetti futuri?
Sto ultimando la revisione di un thriller psicologico, genere nel quale mi sto mettendo letteralmente alla prova e che, proprio per questo, mi sta prendendo molto. Intanto, sulla scia dei libri già pubblicati, sto lavorando a un nuovo romanzo di narrativa siciliana che spero di portare a termine, almeno nella prima stesura, entro fine anno. Anche qui, con una punta di sperimentazione che mi sta impegnando, e divertendo, parecchio.
Qual è il tuo sogno letterario?
Il mio sogno è rivolto principalmente alle nuove generazioni e a chi si approccia per la prima volta alla lettura. Credo molto nel potere curativo delle parole e della letteratura e credo che se ognuno di noi portasse nel suo “kit di sopravvivenza” anche delle pagine da leggere, non solo avrebbe la possibilità individuale di sperimentare per sé il conforto di un buon libro, ma anche la società ne risulterebbe migliore e inclusiva. Se anche riuscissi, nell’arco di tutta la vita, ad avvicinare una sola persona a questa opportunità, allora il mio lavoro e le mie notti alla tastiera ne saranno valse la pena.
Ringrazio l’autrice per la piacevole intervista.